“Seal Wars” di Paul Watson [Traduzione italiana in anteprima]
Seal Wars è il racconto dell’operato di un uomo determinato a mettere la parola fine al massacro delle foche. Watson ha affrontato la violenza dei cacciatori, gli insabbiamenti da parte dei governi e persino il movimento ambientalista che egli stesso aveva contribuito a fondare. Dal porsi in prima linea come scudo umano, al picchettare i porti, al far colare a picco le imbarcazioni adibite alla pesca e al commercio illegale di specie animali protette, non ha mai smesso di lottare affinché l’“industria”, infruttuosa e sanguinaria, dei prodotti di foca, venisse messa al bando una volta per tutte.
In Seal Wars, Watson svela i retroscena, politici e burocratici, della caccia alle foche, che rimangono tanto attuali quanto lo erano un decennio fa, periodo in cui il libro è stato scritto. Le trame governative per trasformare le foche in capro espiatorio e accusarle di costituire la ragione del collasso dell’industria ittica, distogliendo l’attenzione dal vero colpevole dell’impoverimento degli oceani, l’essere umano, sono ancora oggi la scusa più falsa e violenta addotta dai governi, e non solo da quello canadese, per giustificare la strage di molti esemplari in via di estinzione.
In Seal Wars, Paul Watson ci guida nel racconto della propria coinvolgente e straordinaria passione per la salvaguardia di queste creature, di fronte alla quale non si è mai arreso, nemmeno quando la posta in gioco era la propria vita.
***
CAPITOLO 1
ERA IL GIORNO IDEALE PER MORIRE!
Isole Magdalen, Québec, 16 Marzo 1995
I barbari erano alle porte. Il tanfo del tabacco stantio e della birra rovesciata si infiltrava nei corridoi fino a invadere le nostre camere. Il ringhio basso e nasale del dialetto locale francese era interrotto dalle oscenità di un inglese imbastardito, e si tramutò in un pericoloso ruggito nell’istante in cui un’ondata di cacciatori rifluì nei corridoi dell’hotel. Erano ubriachi fradici di un liquore da due soldi e carichi di una violenza rabida che nasceva da un passato di conflitti etnici e da una frustrazione che era frutto dell’ignoranza e della disoccupazione istituzionalizzata.
Prendendo brutalmente a calci e pugni le porte dell’hotel e terrorizzandone i clienti, urlavano di volere la mia testa.
«Dov’è quello stronzo di Watson? Dove sono quegli stronzi pezzi di merda che amano tanto le foche?»
Noi, rintanati nella stanza numero 213, non ci sentivamo molto al sicuro. Una sensazione di déjà vu mi assalì mentre ascoltavo il rombo rabbioso fuori dalla porta. Mi ero già trovato in una situazione di simile difficoltà. Questa volta Marc Gaede, il nostro fotografo, era con me, insieme a due ufficiali in borghese della Sûreté du Québec. Il boato violento che assordava i corridoi sconvolse visibilmente Gaede, ex Marine degli Stati Uniti.
«Cosa avete intenzione di fare quando la massa inferocita butterà giù la porta?» chiesi ai poliziotti.
«Non possiamo fare niente». Pierre Dufort, l’ufficiale superiore, alzò le spalle. «Noi non possiamo difenderla».
«Ma che bella notizia di merda!» gli urlai contro. Ero, per quanto la cosa potesse sorprendermi, sotto shock. Non che avessi mai riposto molta fiducia nelle capacità della polizia canadese di far rispettare la giustizia, ma era assurdo pensare che questi ufficiali, armati com’erano, avrebbero permesso a una simile folla di linciarci.
Le camere del mio equipaggio erano disseminate un po’ ovunque al secondo piano dell’hotel. L’attore Martin Sheen era nella stanza 205 insieme a Chuck Swift e a un operatore cinematografico tedesco. Bob Hunter e il suo operatore video Todd Southgate della Toronto Citytv erano in un’altra stanza. All’esterno, il corridoio risuonava in un boato unico di uomini abbigliati in tute nere da motoslitta insozzate di fango che urlavano oscenità e minacce.
Con rabbia, mi rivolsi a Dufort. «Le avevo detto un’ora fa di chiamare rinforzi dalla terraferma. Questa massa è al di là di qualsiasi controllo».
Dufort si strinse di nuovo nelle spalle come se la cosa non lo toccasse minimamente: «A che scopo? Non sarebbero comunque arrivati in tempo».
D’improvviso, un colpo bestiale fece tremare la porta, e un ruggito fuori luogo ci fece capire che la folla aveva trovato quella che riteneva essere la mia postazione.
«Gesù Cristo, Dufort», dissi nel panico. «Ma che cazzo intendete fare?»
«Non posso sparare. Io vivo in mezzo a questa gente, lo capisce?»
«Dufort, io sono qui con un permesso di ricerca del governo federale. Io non ho infranto alcuna legge. Quella folla là fuori ha già creato danni a delle proprietà e intende buttare giù quella porta per assalirci. E ancora lei non fa niente?»
«Beh, sono infuriati per quello che lei ha fatto nel 1983» protestò Dufort senza convinzione.
«Ma, il 1983, per la miseria, sono passati dodici fottuti anni!»
«Queste persone hanno la memoria lunga. Non ha visto le nostre targhe, monsieur? Il motto è: Io mi ricordo.»
Marc era incredulo: «Oh, merda, questo è il paese dei Looney Tunes.»
La porta si incrinò. La lama di un’ascia la attraversò con un’esplosione che fece saltare il cardine superiore.
Fui tentato di assalire Dufort e di impadronirmi della sua pistola, ma abbandonai al volo l’idea come eccessiva. Suppongo che la follia si possa affrontare con la follia, ma al momento non mi sentivo particolarmente in vena di suicidio.
Mi precipitati invece nella stanza adiacente e spinsi il letto contro la porta. Estraendo dalla tasca una pistola da stordimento mi posizionai tra il letto e la parete di fronte alla porta, puntai le spalle al letto e tesi le gambe contro il muro. Nella camera accanto, la porta venne scardinata e la carica della folla entrò in un boato vittorioso.
Notando Marc, l’ondata si diresse selvaggiamente verso di lui.
Due dei cacciatori lo sbatterono con violenza contro il muro, mentre un altro gli premette due dita contro la faccia nel tentativo di cavargli gli occhi. Ma si bloccò quando qualcuno gli urlò che non si trattava di Watson. Nessuno dei cacciatori era al corrente del fatto che la porta chiusa in realtà fosse parte della suite. Sembrava semplicemente la porta chiusa della stanza adiacente. Per qualche secondo la folla confabulò in preda alla confusione, poi Dufort inclinò generosamente il capo verso la porta della stanza. Ci fu un altro boato di rabbia, e una decina di spalle si sbatterono contro la porta, chiusa a chiave e barricata. Tenendomi forte in attesa dell’attacco inferocito, sentivo i talloni comprimersi, per la pressione, contro la parete.
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Non mi aspettavo un assalto del genere. Eravamo arrivati alle Isole Magdalen allo scopo di offrire un’alternativa. Entro pochi giorni Tobias Kirchoff, della Kirchoff Bedding Fabrics of Germany, ci avrebbe raggiunti per presentare un’offerta ufficiale di impiego per i cacciatori di foche e sarebbe stato pronto a offrire denaro contante in cambio del pelo di cuccioli di foca che avevamo raccolto.
I cacciatori tradizionali non ne avevano voluto nemmeno sentir parlare: «Le foche sono fatte per essere prese a bastonate, non coccolate» aveva urlato Gilles Theriault dell’Associazione dei Cacciatori di Foche delle Isole Magdalen. «Chi cazzo crede di essere Watson? Pensa davvero che baratteremo la mazza con una spazzola? Noi siamo uomini! Uomini che cacciano le foche! Tabernac, cosa pensa che siamo, donnicciole?» [Tabernac è considerata la più volgare tra le imprecazioni canadesi. NdT].
Organizzata da un manipolo di vecchi cacciatori che si ricordavano di me da dodici anni prima, si era tenuta una riunione nella sala comunale della città. I giornalisti ne erano stati esclusi ed erano stati avvertiti di non provare a interferire. Nel tardo pomeriggio, invasati dall’alcool, i cacciatori avevano occupato la lobby del nostro hotel impedendo a chiunque di accedere o di lasciare l’edificio. Noi avevamo chiamato la polizia, ed era stato allora che Dufort aveva respinto la mia richiesta di chiamare rinforzi dalla terraferma.
Sei ufficiali erano arrivati all’hotel ma non avevano fatto alcun tentativo di disperdere la folla.
Nella lobby, i cacciatori ringhiavano di non voler «nemmeno considerare un’idea da ricchioni come quella di spazzolare le foche».
Martin Sheen era sceso nella lobby e aveva chiesto ai cacciatori di dirigersi insieme a lui nella chiesa cattolica dall’altra parte della strada per discutere la questione. Per tutta risposta, questi lo avevano minacciato di linciaggio se non se ne fosse andato. A quel punto Martin fu avvisato da un ufficiale della Sûreté che la sua incolumità non sarebbe stata garantita se non fosse rientrato nella propria stanza.
Martin non era nuovo al confronto. Era stato sottoposto all’arresto in parecchie occasioni durante le manifestazioni contro le armi nucleari e in questioni legate alla tutela ambientale. Era stato testimone oculare della rabbia presente nelle file dei picchettatori e delle percosse subite dai manifestanti per mano della polizia.
Ma mi aveva chiamato dalla sua stanza, e mi aveva confessato: «Temo davvero per le nostre vite. È la folla più brutale e più violenta che abbia mai visto.»
Mentre continuavo a tenermi puntato contro il muro, sapevo che non sarei riuscito a resistere ancora per molto. La pressione si faceva sempre più insopportabile.
Il telefono squillò. Io ne afferrai il cavo, facendo crollare a terra il comodino. L’apparecchio rimbalzò sul pavimento, e io tirai verso di me per raggiungere il ricevitore. Era una giornalista dell’Isola di Prince Edward. A quanto pareva, avevamo fissato un’intervista. «Non posso parlare adesso», le dissi. «Sto cercando di respingere l’attacco di una folla imbestialita. La mia stanza è barricata. Deve avvisare le autorità della Città di Québec. Abbiamo bisogno di aiuto.»
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