Se una vecchia comunista entra nella tua vita… di lettore
Paul Sweeny diceva che ti accorgi di aver letto un buon libro quando giri l’ultima pagina e ti senti come se avessi perso un amico. Lo ammetto, non mi capita spesso di percepire questa sensazione. Sono una lettrice compulsiva e non do molto tempo ai personaggi di sedimentarsi. Tuttavia, qualcuno resta, come i rimasugli di caffè alla romena (per chi non lo sapesse: una sorta di infuso, nel quale i granelli di caffè tardano a depositarsi sul fondo del pentolino e vanno a finire nella tazza. Utili per chi desidera conoscere il futuro). Mi accorgo di chi mi resta in mente perché fatico a parlar di loro appena conclusa la lettura. Forse perché devo ancora metabolizzare la loro perdita. E loro dispettosi mi gironzolano intorno per la casa, come degli spiriti che faticano a staccarsi dal mondo dei vivi. A questo punto, non mi resta altro che parlargli affinché ognuno di noi possa proseguire per la sua strada, serbando solo un ricordo.
Emilia Apostoae, Mica per i famigliari, una vecchia comunista per Alice, la figlia divenuta donna… È lei l’ultimo spirito dei libri che mi si aggira attorno e dal quale, in un certo senso, non voglio separarmi. Vuoi perché pure lei parla da sola in casa o sgrida il marito quando non c’è, vuoi perché mi pare di aver visto una ruga di mia madre disegnata sul suo volto di cui l’autore, Dan Lungu, racconta ben poco. Fatto sta che è qui, e allora mi sento costretta a parlare con lei, perché non resti incagliata nella mia realtà.
«Emilia, davvero rimpiangi il comunismo?», le domando.
«Dopo la Rivoluzione la fabbrica dove lavorava (Ţucu, mio marito) è andata a rotoli, come tante altre. Così si è trovato tagliato fuori dal gioco. Ha provato a cercare lavoro qua e là, ma senza successo. Per andare a mettere piastrelle in Italia era troppo vecchio, ormai. […]
Fu un momento difficile, ci demmo il tormento l’un l’altra per un paio di mesi, più o meno. I soldi erano agli sgoccioli, la vita sempre più cara, perciò arrivammo a un compromesso: lui sarebbe andato in campagna qualche giorno alla settimana mentre io sarei rimasta qui, nel nostro appartamento. In un certo modo le cose si sono risolte, anche se ritorna ogni volta coi vestiti impregnati di odore di sterco (odore che Emilia odia, per via della sua infanzia passata nel villaggio a pestare il tizic). Tornare a vivere in campagna sarebbe stato come aver vissuto per niente. Sarei ritornata al punto di partenza. […]
Per me le cose sono semplici: prima della Rivoluzione vivevo mooolto meglio di adesso.»
Tutto d’un tratto mi sento come se stessi vestendo i panni della figlia, Alice, che le telefona dal Canada preoccupata per chi andrà a votare la mamma alle imminenti elezioni. Ora Alice fa parte di un gruppo di romeni oltre oceano che cerca di convincere quelli rimasti nella madre patria di non dare il loro voto agli ex comunisti, ma con sua madre ha filo da torcere.
«Ogni volta che mi capita di passarci davanti (parla della fabbrica in cui lavorava durante il regime), giro la testa dall’altra parte. Mi si spezza il cuore, giuro. Ho la sensazione che là, in reparto, i nostri fantasmi siano rimasti ciascuno nella sua postazione, pronti a mettersi al lavoro.»
«Sì, Emilia, hai ragione.», le dico e penso che la mia voce somigli sempre di più a quella di Alice. «C’era lavoro e c’erano soldi, ma non c’era il cibo, se non in seguito a file chilometriche, e mancava totalmente la libertà! Per quella non c’era fila da fare e poterla raggiungere e nemmeno il Parenti-Conoscenti-Relazioni (acronimo anche del Partito Comunista Romeno), la pratica tanto in uso (e sopravvissuta) che spesso lasciava lo spiraglio di un’arancia o un pezzo di carne da mettere in tavola.»
«È vero, a quel tempo c’erano sempre file chilometriche, ma adesso entro in macelleria, ammiro le cotolette, mi viene l’acquolina in bocca e poi esco a mani vuote perché non ho soldi per comprarle. A volte mi tocca anche vedere uno di questi nuovi ricchi che compra due chili di filetto. Guarda, davvero non lo so quand’è che si stava meglio. Da poco ho visto in televisione persone che muoiono di fame, famiglie con bambini che dormono per strada… Ai tempi del comunismo questo non succedeva.»
«E la libertà, Emilia?», insisto.
«Adesso si può gridare all’infinito (quello che si vuole), tanto non c’è nessuno che ascolta… Se fosse per me, io vorrei che il comunismo ritornasse domani stesso.»
Mi sento confusa. Che sia un po’ comunista anche io? Riprendo il romanzo tra le mani. Leggo il titolo: “Sono una vecchia comunista”. Autore: Dan Lungu. Traduttore: Ileana M. Pop. Editore: Aìsara. Anno: 2012. Apro una pagina a caso.
«Emilia, dai torna qui, nella tua storia, e fatti rileggere.», la incito. «Anzi, no, ché sono una lettrice compulsiva. Lascia che mi gusti le pagine, ho proprio voglia riflettere, rattristarmi un po’ e anche ridere, perché ai tempi di Ceauşescu, i romeni ridevano di più. E zio Mitu ne è un esempio di chi le barzellette le sa raccontare!»
Emilia, docile, fa un salto e si nasconde tra le pagine del romanzo, io mi siedo in poltrona e scorro le lettere. È un’amica che non voglio ancora perdere, mi sorprendo a riflettere.
Dan Lungu è nato a Botoşani, nel ’69. Scrittore e professore associato alla cattedra della facoltà di Sociologia, fonda nel ’96 il movimento letterario Club 8. Caporedattore della rivista Au Sud de l’Est (Paris) e, tra il 2001 e il 2002, anche della rivista culturale Timpul.
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