Se la toponomastica prende granchi, anzi… aranci
La toponomastica è quel settore della Linguistica, e in particolare delle scienze onomastiche, che studia i nomi di luogo, ossia i topònimi (dal greco tòpos, «luogo» e ònoma, «nome»). Sono toponimi, ad esempio, tutti i nomi degli elementi geografici naturali quali continenti e isole, montagne e colline, fiumi, laghi e torrenti. E allo stesso tempo sono toponimi i nomi di stati e regioni, città e paesi, vie, piazze e località. Secondo Emidio De Felice, dal cui articolo Onomastica (contenuto in Linguistica storica, a cura di Romano Lazzeroni, Roma, Carocci editore, I ed. 1987, ristampato nel 2012) si attinge qui a piene mani per completezza e rigore scientifico, soltanto in Italia i nomi dei Comuni e delle relative frazioni sono quasi 50mila, e si arriva a oltre 200mila considerando anche la toponomastica delle località minori e costruzioni isolate. Un bel «serbatoio» di dati, che oltre a fornire interessanti informazioni sull’aspetto per così dire «esteriore», sulle caratteristiche fisiche di un luogo (in Sardegna, il capo di roccia a forma di orso prospiciente all’isola di Caprera conserva il nome di Capo d’Orso fin dall’antichità) ci tramanda, e insieme ricostruisce, la storia di un luogo e della sua denominazione. È il caso del nome della città siciliana di Enna, che, a partire proprio dal toponimo greco e poi latino Enna, dopo la fortificazione della città passa a Castrum Ennae, viene adattato dagli arabi nel IX secolo in Qasr Yanih ed è poi frainteso nei secoli successivi fino a consolidarsi nel siciliano Castroianni (cioè «città fortificata di Ianni») e nell’italiano Castrogiovanni, nome ufficiale del capoluogo fino al 1927. L’ultimo passo, la ripresa del nome antico Enna, è storia recente, e si deve a motivi ideologici e di prestigio culturale.
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Senza soffermarci qui sugli aspetti centrali della toponomastica (come formazione e conservazione dei toponimi, tipologia e metodologia di ricostruzione), per i quali si rimanda senz’altro al saggio di De Felice, consideriamo invece alcuni casi in cui la forma «superficiale» del toponimo può trarre in inganno, dando adito a una trafila ricostruttiva totalmente sbagliata. Il toponimo Volpedo (che denomina un piccolo centro in provincia di Alessandria), ad esempio, può sembrare immediatamente riconducibile alla parola volpe, e può quindi dar luogo a ricostruzioni errate. Solo recuperando le forme medievali Vicopecudis, Vicopegolo, Vipeguli e poi Vulpeglum si ricostruisce invece la trafila corretta, nonché l’originaria denominazione Vicus pecudis che vale per «vico, centro (di allevamento, di raccolta) di greggi».
Stesso discorso vale per gli ormai emblematici esempi sardi dei toponimi Golfo degli Aranci e Isola dei Cavoli, nei quali l’«errore», o meglio la semplificazione toponomastica è avvenuta nel processo di italianizzazione arbitraria dei nomi autoctoni. Nel primo caso, il nome sardo del golfo e dell’abitato era Gulfu li ranci, cioè «golfo dei granchi», mentre nel secondo caso il toponimo originario era Isula de is kàvurus, cioè (ancora una volta) «isola dei granchi, dei gamberi». Nel processo di italianizzazione i cartografi, che non conoscevano le parlate sarde, fraintesero le due denominazioni senza rispetto per il rapporto logico-semantico tra etimo e toponimo, con il risultato di trasformare una costa sempre esposta a forti venti in terra di aranceti, e un isolotto roccioso e disabitato in luogo propizio per la coltivazione dei cavoli.
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