“Se chiudo gli occhi” di Simona Sparaco: in viaggio verso il perdono
Scrive Simona Sparaco in Se chiudo gli occhi (Giunti Editore): «Solo con gli anni riesci a metterti in pace con ciò che ti è stato tolto». E c’è qualcosa che è stato tolto, non solo a Viola, la protagonista, ma a buona parte di una generazione, quella dei trentenni/quarantenni di oggi, la prima generazione ad affrontare le conseguenze della legge Fortuna-Baslini, quella che riconosceva il divorzio anche nel nostro Paese. La prima generazione a fare i conti con pezzi di famiglia che andavano, quando l’allontanamento di un genitore da casa era una perdita, quasi un lutto, non un semplice cambio di status o una diversa prospettiva nel rapporto genitori-figli com’è oggi, oggi che essere figli di separati o divorziati non è forse la regola ma nemmeno più l’eccezione, oggi che un padre che se ne va di casa non va anche via dalla vita dei figli, perché la società ha cambiato anche l’estensione dei rapporti parentali, non più ristretti al nucleo della famiglia intesa come istituzione originata dal matrimonio ma liberi di agglutinarsi in forme e modi diversi senza per questo essere illegittimi.
Così si parte alla ricerca di quel qualcosa che ci è stato tolto per ritornare a rimettersi in pace con se stessi, e per quella generazione il qualcosa tolto è stato il padre e la ricerca è un viaggio, come Telemaco alla ricerca di Odisseo. Il complesso di Telemaco, lo ha definito giustamente Massimo Recalcati in un saggio edito da Feltrinelli solo pochi anni fa: «la nostalgia per il padre-eroe è una malattia sempre in agguato». Non resta che fissare l’orizzonte nell’attesa di un ritorno o partire alla ricerca di quell’eroe ormai smitizzato per restituirlo alla sua originaria statura di uomo con i suoi ma e i suoi perché, le domande cui non ha potuto rispondere perché non sono mai state fatte. Perché ci vuole coraggio a chiedere e più ancora ad ascoltare.
Viola sceglie la via del viaggio con quel padre artista, bambino senza tempo, come senza tempo sono le storie che finalmente le racconta, storie che si mescolano a leggende di Sibille e antichi misteri. Un viaggio verso il passato, un viaggio verso casa, una terra sconosciuta di ricordi mai svelati, verità che non giustificano, forse, ma spiegano e riscattano, con la forza dell’amore, un perdono. Quel perdono. Il perdono di una figlia. Il perdono di una donna.
Sullo sfondo quasi mistico dell’Appennino umbro-marchigiano, Simona Sparaco ci accompagna in un percorso a doppia corsia: il presente di Viola e il passato di Oliviero (il padre), mostrando come esplorare l’uno e l’altro sia necessario per poter abbracciare il futuro liberi dal peso dei rimpianti, di amarezze e insicurezze insostenibili e magari recuperare la fiducia in sé e nell’altro, quell’altro che, quando c’è di mezzo il binomio genitore-figlio, è sempre e comunque specchio e sintesi del mondo intero.
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“Se perdi il rispetto di un figlio, non sperare di poter tornare indietro” è una frase che io ho pronunciato appena prima di iniziare a leggere Se chiudo gli occhi. È una frase che mi sono ripetuta per tutta la durata della lettura. Ma l’autoreferenzialità qui non c’entra. C’entra piuttosto la natura stessa della letteratura che, come diceva Cesare Pavese, è fatta di parole: «che risuonano in una zona già nostra – chi già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi».
Le parole di Simona Sparaco sono risuonate nella zona del mio vissuto di figlia e lì si sono scontrate con il mio ruolo di lettrice: chi tra le due aveva ragione? La scrittrice che espia l’accanimento del dolore attraverso il perdono e si rimette in pace (e forse anche in pari) con se stessa? O la lettrice perseguitata dai propri demoni, ormai arresa all’inevitabilità delle ripercussioni di ciò che è stato? Cosa vince tra il lieto fine della finzione e l’irrimediabile realtà? Se pure queste domande non hanno, né potranno mai avere, una risposta che sia al tempo stesso univoca e logica, il grande merito (e dunque la grande bellezza) di questo romanzo risiede proprio nella spinta all’indagine emotiva, psicologica, viscerale, assolvendo infine pienamente – cosa peraltro rara di questi tempi – a una delle funzioni storiche della letteratura.
Un altro dovere della letteratura cui questo testo risponde appieno (non a caso è tra i sei finalisti del Premio Bancarella 2015) è quella estetica: se è vero che i demoni si esorcizzano con il linguaggio (Roland Barthes), ecco allora che il formidabile talento per la lingua di questa autrice ci conduce in una raffinata relazione con le parole che avvolgono e alimentano la storia di preziosismi lessicali, fascinazioni allocutorie, capaci di fare della forma un contenuto: «Assaggiava il dolore nel sapore di una mancanza […]». Siamo al di là della pura e semplice bella scrittura, siamo nel punto esatto in cui il significato penetra il significante raggiungendo un totale orgasmo linguistico.
Talora ci sembra di vivere immobilizzati in situazioni impossibili e invece una via d’uscita c’è sempre. Fosse anche solo un’invenzione letteraria, un riflesso dell’immaginazione altrui, un artificio narrativo. Basta chiudere gli occhi, lasciarsi andare e crederci. Come fa Viola in Se chiudo gli occhi di Simona Sparaco.
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