Scrittura creativa – Scavare caverne intorno ai personaggi
Rileggendo il titolo di questa lezione di scrittura creativa, ho come l’impressione di avvertire la vostra perplessità. Cosa vuol dire “scavare caverne intorno ai personaggi”? Potrebbe trattarsi di una metafora, invece mi riferisco a una “tecnica di scrittura”, un modo di trattare il flusso di coscienza, così come ve ne ho parlato la scorsa settimana. Vi avevo detto che la rivoluzione nella tecnica di rappresentazione dell’attività psichica si ha in special modo con due romanzi: Ulisse (1922) di Joyce e La signora Dalloway di Virginia Woolf (1925). È difficile eludere l’influenza che il romanzo di Joyce ha avuto sul lavoro di Virginia Woolf. La materia dei due libri presenta aspetti comuni, anche se lo stile è declinato in maniera del tutto personale da ciascuno dei due autori. Diciamo delle somiglianze: entrambi adottano le unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione, con una giornata e una città di riferimento: Dublino per Joyce; Londra per Woolf. Analoga è l’esperienza complessa e ambigua della città: da una parte una descrizione particolareggiata e riconoscibile, di sorprendente realismo; dall’altra l’esperienza soggettiva e trasfigurata della metropoli che diviene irreale e fantastica.
«Make it new!», era l’ingiunzione di Ezra Pound. Bisogna essere assolutamente moderni; un imperativo per il Modernismo e le avanguardie artistiche del primo Novecento. Il desiderio di rottura e il furore iconoclasta sono forti, all’inizio, ma in seguito prevale una rielaborazione dei classici più dinamici (Joyce si ispira a Omero; T.S. Eliot, ne La terra desolata (1922), rievoca Dante con una massa di gente che si sposta sul London Bridge come un’orda in un girone infernale!). Woolf scavalca con un salto le convenzioni che fino ad allora avevano adottato la residenza, lo stato sociale e le proprietà per caratterizzare i personaggi (pensate alla Austen) e dice: «Così facendo si perde l’individualità». Era appena nata la psicanalisi e gli echi di una nuova concezione dell’uomo si fanno sentire. Woolf sostiene che bisogna togliere la voce al narratore onnisciente di stampo vittoriano (che coincide con l’autore del romanzo) e far sentire la voce diretta dei personaggi, i loro pensieri e aspirazioni.
L’idea (o la scommessa) che sorregge un romanzo come La signora Dalloway è che per raccontare una vita basta una giornata, che viene presa a “campione” di tutte quelle che l’hanno preceduta. Così il romanzo si apre su un’assolata mattina di giugno del 1923: Clarissa Dalloway passeggia pigramente per le strade eleganti di Londra, per andare dal fiorista. Vuole decorare la sua casa che ospiterà un ricevimento, per conoscenti e amici vecchi e nuovi. Clarissa è una signora di mezz’età, amante degli agi e della vita. Eppure si chiede della morte, se la sua esistenza avrebbe potuto essere diversa se avesse detto sì, in passato, a Peter Walsh, amico di lunga data che rientra a Londra dall’India. Clarissa ha una sua teoria: si sopravvive nelle cose che ci sono appartenute, nelle persone che abbiamo conosciuto e amato, nei luoghi che abbiamo visitato.
Leggere un romanzo come La signora Dalloway può indurre un vago senso di vertigine. Si sprofonda in una scrittura densa e mobile, dove i punti di vista cambiano con frequenza e inavvertitamente. Si sente distintamente la voce del narratore, che coincide con quella dell’autrice, ma d’improvviso questa voce si mette da parte per lasciare la parola ai suoi personaggi, dei quali vengono riportati i pensieri e gli stati d’animo. Il testo non è strutturato per capitoli, ma per stream (flussi), riconducibili ai singoli personaggi.
«Era arrivata ai cancelli del parco. Si fermò un attimo, a guardare gli autobus a Piccadilly. Non avrebbe mai più detto che uno è così o cosà. Si sentiva molto giovane; e al tempo stesso indicibilmente vecchia. Affondava come una lama nelle cose; e al tempo stesso ne rimaneva fuori, osservava. Aveva l’impressione costante, anche ora guardando i taxi, di essere lontana, lontanissima, in mare aperto, e sola. Sempre aveva l’impressione che vivere, anche un solo giorno, fosse molto, molto pericoloso».
Se notate, l’impianto è convenzionale: apre la voce del narratore, fino a “Piccadilly”, ma dopo il punto un inciso ci riporta direttamente il sentimento di nostalgia di Clarissa per la vita e il Tempo che scorre. L’impasto è un misto di prosa e poesia, lirico e fantasmagorico, con delle analogie (la lama che affonda; il mare aperto e insidioso). A volte lo stacco tra uno stream e l’altro è introdotto da alcuni elementi di transizione. Dal monologo interiore di Clarissa scorriamo verso ulteriori stream. Il botto di un’auto nel 1° stream rappresenta una sorta di ideale staffetta che ci trasferisce in modo elegante nel 2° stream. L’auto riparte, percorre Piccadilly e St. James Street, diretta a Buckingham Palace, seguita dalla commozione della folla che cerca di capire se a bordo c’è la Regina, il Primo ministro o il Principe. Leggiamone un brano:
«Edgar J. Watkiss, col pezzo di piombo che gli sbucava da sotto il braccio, disse con tono divertito, a voce alta: “La macchina del primo Ministro”. Septimus Warren Smith, che si trovò impedito a passare, lo sentì. Septimus Warren Smith, sui trent’anni circa, pallido in volto, il naso aquilino, le scarpe marroni e una giacca sdrucita, gli occhi color nocciola, e nello sguardo un’aria di apprensione che comunicava anche agli estranei. Il mondo aveva sollevato la frusta, sarebbe discesa? Tutto si fermò! La vibrazione dei motori, intanto, continuò a pulsare come un battito irregolare che attraversi un corpo. Il sole infocò, perché la macchina s’era fermata appena fuori dal negozio di Mulberry. […] Il mondo vacillava, tremava, minacciava di scoppiare in fiamme. […] “Su, vieni”, disse Lucrezia. Ma suo marito, perché erano sposati da quattro o cinque anni ormai, trasalì, fece uno scatto e disse: “D’accordo!”, con rabbia, come se l’avessero interrotto. La gente se ne deve accorgere, la gente vede. La gente, pensò lei, guardando la folla che fissava la macchina, gli inglesi con i loro bambini e i loro cavalli e i loro abiti che lei ammirava in una certa misura; ma ora erano “gente”, perché Septimus aveva detto, “mi ucciderò”, una cosa tremenda da dire. […] Probabilmente è la Regina, pensò la signora Dalloway, uscendo da Mulberry coi fiori; la Regina. […] Così disse Sarah Bletchley, con il figlio in braccio, dondolandosi con il piede come fosse davanti al suo caminetto di Pimlico, ma con l’occhio fisso al Moll, mentre Emily Coates correva con lo sguardo alle finestre del palazzo e pensava alle cameriere, le innumerevoli cameriere, i letti, i letti innumerevoli. S’aggiunsero alla folla che cresceva un anziano gentiluomo, con un terrier Aberdeen e della gente senza impiego. Il piccolo signor Bowley, che abitava ad Albany e aveva sigillato a cera le profonde sorgenti della vita, le quali potevano però disigillarsi all’improvviso, nel modo meno appropriato, sentimentalmente, davanti a questo genere di spettacoli […]».
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È un lungo stream, che dura diverse pagine e del quale, per motivi di spazio, vi cito solo le briciole. Si tratta di una focalizzazione interna multipla; ovvero, la voce narrante (Woolf) descrive il fondale, poi esprime diversi punti di vista, a seconda dei personaggi, per uno stesso evento (l’auto che si muove verso Buckingham Palace) e in sincrono, dipingendo una sorta di “affresco corale”; alcune voci sono appena accennate e subito abbandonate (Edgar J. Watkiss, Sarah Bletchley, il signor Bowley), altre con un peso specifico nel romanzo. Ci appare subito chiaro che i meccanismi mentali di Septimus sono alterati: il sole si è scaldato troppo a causa dell’auto che si è fermata; il mondo si è surriscaldato ed è in procinto di scoppiare. La moglie Lucrezia, un’italiana, cerca di riportarlo a un principio di realtà. L’infelice Septimus è il doppio di Clarissa; se Clarissa è luce e apertura, piena accettazione laica della vita e della morte, Septimus è la sua zona d’ombra, il rifiuto di un passato sentito come indicibile sofferenza, imprigionato com’è nelle sue visioni d’orrore, perduto nella sua follia. Septimus, anche nel nome, è l’anagramma di war smitten, “reduce di guerra”, un uomo segnato senza rimedio da quel che ha vissuto al Fronte. Septimus e Clarissa non si incontreranno mai nel romanzo, ma l’uomo è come fosse un protagonista complementare.
Lavorare su due personaggi in aperto contrasto permette a Virginia Woolf di attuare un metodo da lei definito tunneling process. Woolf attinge alle regioni più oscure e profonde dell’individualità dei personaggi con un lavoro di progressivo sgretolamento. Lo “scavare” intende esprimere gradi più sottili di realtà, variazioni sempre più minime nella scala della luce, fino ad arrivare a stati di semioscurità. Il Tempo è al centro del romanzo; anche Nadia Fusini, curatrice della traduzione e introduzione dell’edizione Feltrinelli (1993) parla di una “dimensione sconosciuta alla grammatica”. Il sistema dei tempi verbali è piuttosto confuso: il presente dei personaggi è dato al passato e il loro passato, che dovrebbe per logica prevedere il trapassato, non accade, è un “non più” e “non ancora”, dove domina l’imperfetto, che rivela una sorta di non concludersi dell’azione e una propensione della Woolf a mantenere una tensione di durata. Non per nulla il romanzo, nelle prime intenzioni della sua autrice, doveva titolarsi Le ore.
Per ora abbiamo finito di “scavare caverne intorno ai personaggi”. Col prossimo appuntamento di scrittura creativa definiremo le tecniche di costruzione del personaggio, motore del racconto. Vi aspetto.
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