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Scrittura creativa – Raccontare e descrivere

Raccontare e descrivereBentrovati. È arrivato settembre e riprendono le nostre lezioni di scrittura creativa. Sapreste dirmi la differenza fra “descrivere” e “raccontare”? Il “raccontare”, ovvero la narrazione in quanto tale, è una rappresentazione di eventi, mentre la “descrizione” è una rappresentazione di esistenti (i personaggi, l’ambiente dove agiscono, particolari oggetti o paesaggi). Il raccontare costituisce perciò l’elemento dinamico del racconto (azioni, colpi di scena, intrecci e sviluppi della nostra storia), mentre il descrivere si riferisce all’aspetto statico.

Raccontare è anche rendere (nel tempo della scrittura, per l’autore; nel tempo della lettura, per il lettore) una successione temporale. Descrivere è, invece, ricostruire (nel tempo della scrittura e della lettura) una successione spaziale.

Queste considerazioni sono vere in astratto; in realtà “raccontare” e “descrivere” non sono peculiarità della scrittura in opposizione tra loro, né sono così ben delineate come potrebbe apparire dalla loro definizione. Narrazione e descrizione compaiono nelle opere di narrativa fittamente intrecciate l’una con l’altra, e ci capita di rado di poter isolare momenti descrittivi da quelli narrativi.

Nella narrativa orale e nella produzione letteraria delle origini la descrizione è sempre stata considerata come subordinata alla narrazione, salvo qualche eccezione. Il raccontare ha sempre goduto di un certo privilegio rispetto al descrivere, non per motivi estetici ma per una questione strutturale. Nei poemi del genere mitologico, epico e in quello cavalleresco si sono fatte pian piano sempre più spazio intere sequenze descrittive, con una funzione allegorica o simbolica. Prendiamo come esempio un paio di ottave, 33-35, dal Canto Primo de L’Orlando furioso (1532), di Ludovico Ariosto, dove il lettore può seguire le traversie di Angelica che fugge da Rinaldo, il paladino bramoso di conquistarla:

33.

Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi,
il mover de le frondi e di verzure
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta in monte o in valle
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

Qui il riferimento più immediato è la selva dantesca, “oscura”, dov’è facile smarrirsi, e la descrizione dei luoghi che incontra Angelica riverbera al lettore la sua paura e le potenziali insidie nascoste nel paesaggio. Saltabeccando all’ottava 35 leggiamo:

[…] Trovossi alfine in un boschetto adorno
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.
(Edizione Mondadori Grandi classici, 1976-1990, a cura di Cesare Segre)

Nel suo peregrinare Angelica incappa in un soave boschetto dalle “chiare, fresche e dolci acque”. L’eco è petrarchesco, ma non solo. C’è una tradizione simbolica, dalla quale Ariosto attinge, che richiama il motivo del locus amoenus, già presente in Omero, in Virgilio e Sant’Isidoro di Siviglia: un posto gradevole e appartato, che ha il potere di evocare protezione e sicurezza, un luogo (quasi) fatato e impermeabile ai mali del mondo esterno.

In età barocca, le descrizioni raggiungono livelli che non esiterei a definire “parossistici” nel tentativo di inseguire una bellezza esornativa, utile ad esprimere il virtuosismo compositivo e lessicale dell’autore (un caso per tutti è l’Adone (1623) di Giovan Battista Marino: andate a spulciarne qualche ottava, sarà illuminante!). Ma è nell’Ottocento che la descrizione diviene pienamente significativa, a opera dei maggiori romanzieri del tempo. Lunghe e articolate descrizioni di ambienti e personaggi risultano fondamentali per capire cause e motivazioni dell’agire dei personaggi. La funzione del descrivere si integra perfettamente con la narrazione. Pensate alle belle descrizioni di ambienti e personaggi di Jane Austen (1775-1817), popolare autrice nella cui scrittura il sottile equilibrio tra il raccontare e descrivere è sempre armonico e funzionale all’intreccio.

Non mancano, nel Novecento, dei tentativi (pure ben riusciti) di romanzi sperimentali che fanno della descrizione il cardine di opere intere. Si tratta di operazioni intellettuali, volte a svincolare il tradizionale retaggio servile della descrizione a favore della narrazione. Sto parlando dell’école du regard, la scuola dello sguardo, e in particolare di Alain Robbe-Grillet (1922-2008), autore di interi racconti che altro non sono che descrizioni geometriche ed enigmatiche di ambienti colti da un osservatore in condizione di assoluta staticità. Assimilabile in parte a questa tendenza c’è un monumentale romanzo di Georges Perec (1936-1982), La vita. Istruzioni per l’uso (1978), un curioso progetto che, nelle intenzioni del suo autore, intende offrire al lettore «[…]uno stabile parigino a cui sia stata tolta la facciata… in modo che dal pianterreno alle soffitte, tutte le stanze che si trovano sulla parte anteriore dell’edificio, siano immediatamente e simultaneamente visibili». Leggiamone un passo, tratto dal capitolo XIX, Altamont, 1:

«Al secondo, in casa Altamont, si prepara il tradizionale ricevimento annuale. […] Non ci sono quadri alle pareti, facendo esse stesse, con le porte, ornamento: sono rivestite di una tela dipinta, un panorama sontuoso in cui certi effetti a inganno fanno pensare a una copia eseguita apposta per questa stanza sulla base di certi cartoni presumibilmente più antichi, raffiguranti la vita nelle Indie come poteva immaginarsela la fantasia popolare nella seconda metà del diciannovesimo secolo: innanzitutto una giungla lussureggiante popolata di scimmie con occhi grandissimi, poi una radura sul braccio di un fiume dove sguazzano tre elefanti spruzzandosi a vicenda; ancora più in là delle capanne su palafitte […]».

Qui la scommessa è di raccontare le vite delle persone attraverso la descrizione degli appartamenti in cui vivono e degli oggetti di cui si circondano. Questo romanzo, che nella edizione italiana BUR (1983, traduzione di Dianella Selvatico Estense) conta circa 580 pagine, è però un caso particolare.

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Ma oggi, cosa possiamo farcene delle descrizioni? Nell’era di internet e del villaggio globale cresciamo con un bagaglio formidabile di immagini e informazioni. C’è qualche motivo per utilizzare una descrizione minuziosa, anche solo come apertura di un romanzo (pensate a «Quel ramo del lago di Como» di Manzoni ne I promessi sposi)? Io direi di sì, dobbiamo solo correggere il tiro. Vi inviterei, in proposito, a leggere l’incipit di A sangue freddo (1966), il romanzo capolavoro di Truman Capote: «Il villaggio di Holcomb si trova sulle alte pianure di grano del Kansas occidentale, una zona desolata che nel resto dello stato viene definita “laggiù”. Un centinaio di chilometri a est del confine del Colorado, il paesaggio, con i suoi duri cieli azzurri e l’aria limpida e secca, ha un’atmosfera più da Far West che da Middle West […].» (Garzanti, 1965-2005, traduzione di Mariapaola Ricci Dèttore). In due pagine Capote introduce magistralmente una cittadina sperduta del Kansas, teatro di un brutale quanto gratuito omicidio plurimo (che ricostruisce un reale fatto di cronaca sul quale l’autore aveva raccolto diverso materiale, fatto numerose ricerche e intervistato direttamente i testimoni) come se su di essa aleggiasse perennemente come un cupo presentimento, un’atmosfera tesa e inquietante.

Possiamo concludere, più in generale, che nella narrativa odierna la descrizione ha la funzione di creare ritmo nel racconto, costringendo il lettore a guardare l’ambiente circostante gli eventi narrati. Può, in altri casi, creare una distensione dopo un passaggio ricco di azioni e concitazione, o suspense quando interrompe il racconto in un momento critico. Può, altresì far vedere in quadri minuziosi e ricchi di dettagli, o con qualche pennellata di tipo impressionistico, una gamma di effetti “visivi” esperiti attraverso la lettura, magari col ricorso a metafore calzanti. È questo un linguaggio molto utilizzato nello script cinematografico: la panoramica, la profondità di campo, la distanza da un particolare oggetto, punti di vista alternativi, luci e ombre.

In questi casi, la descrizione è diretta espressione della nostra epoca: è un racconto per “frammenti”, un movimento rapido, a tratti convulso, fatto di accelerazioni, brusche frenate e sterzate, strettamente vincolato al potere dell’immagine evocata da un abile utilizzo del linguaggio. È per questo che chiudo questa breve carrellata sui meccanismi del raccontare e del descrivere invitandovi a inserire, giocoforza, tra le vostre letture di scrittura creativa, anche delle sceneggiature. A presto.

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