Scrittura creativa – Perché scrivo?
Se siete tra quelli che hanno guardato sempre con sospetto ai workshop di scrittura creativa; se pensate che non ci sia nulla da apprendere in un laboratorio di scrittura creativa, che uno ha il dono di saper scrivere; se siete convinti che la scrittura sia un’attività da esercitarsi in rigorosa solitudine, nel vostro studio, quando vi aggrada, chini sul vostro opus e confrontarvi con (o peggio) imitare altri “grafomani” significhi imbastardire o contaminare la genuinità del vostro personalissimo stile; se pensate che sia più opportuno limare le vostre pagine che disperdere tempo ed energie nella lettura di libri di altri autori, allora questa rubrica fa al caso vostro. E di tutti coloro che coltivano qualche curiosità sulla scrittura (più o meno creativa).
In effetti il gesto della scrittura è solo il punto di approdo di una serie di eventi, chiamiamoli “processi” se vogliamo darci una patina scientifica, che inglobano al loro interno fenomeni molto diversi tra loro (attitudini, motivazioni, pensieri e riflessioni, ordinamenti dei contenuti “da scrivere”). Ma perché l’aggettivo “creativa”? Scrittura creativa è quel tipo di scrittura che esula dalla cosiddetta “scrittura professionale”. Gli psichiatri hanno un loro linguaggio, scrivono in un certo modo. I filosofi scrivono in un certo modo. Gli avvocati scrivono in un certo modo. I poliziotti scrivono in un certo modo. La loro è una scrittura tecnica. Ma esiste anche una scrittura accademica, o giornalistica, o… La scrittura creativa invece riguarda i generi della poesia, i racconti e i romanzi. Si fa qualche distinzione sulla scrittura per il teatro e il cinema, che viene a volte insegnata in qualche scuola specializzata, ma anche questa, in senso lato, è scrittura creativa.
La scrittura creativa nasce in America, grazie e soprattutto a John Dewey, insigne pedagogo ma anche molto altro, che agli inizi del XX secolo sviluppa il suo concetto di “scuola attiva”, dove parole come “pratica”, “fare” ed “esperienza” sono come la divina Trinità. Dal 1915 in poi le università americane più prestigiose cominciano a tenere dei corsi di narrazione, invitando scrittori e letterati di fama a trasferire agli studenti la loro passione, insegnando alcune tecniche e trucchi del mestiere. Il principio alla base di questi corsi è molto semplice: si impara scrivendo, nel confronto col giudizio e le opinioni altrui (non solo di chi è competente, ma anche del lettore comune e motivato), misurandosi de facto con la produzione di elaborati.
Questo discorso del “fare” gioca indubbiamente a mio vantaggio. Non essendo io titolato o in alcun modo in grado di esibire un pedigree di rilievo, ho il piacere di condurre questo spazio con l’intento di parlare di argomenti e tematiche per le quali nutro un sincero interesse e rivendicando, da par mio, una pratica giornaliera della lettura e della scrittura (più o meno creativa, s’intende). Cosa troverete, perciò, in questo appuntamento settimanale? Di volta in volta prenderò in esame delle tecniche di scrittura creativa (incipit, focalizzazione, punto di vista, eccetera); fornirò qualche spunto di esercizio; prenderò in esame dei testi rappresentativi, limitandomi a fornire della bibliografia o citando dei brevi passaggi particolarmente significativi. Parlerò, inoltre, di autori, li contestualizzerò confrontandoli con altri che li precedono o seguono, dicendo qualcosa del loro stile, delle soluzioni narrative, degli intrecci, della composizione dei personaggi, dei temi che affrontano e via discorrendo.
Prima di parlare della prassi, e quindi del “come scrivere”, vi inviterei a porvi una domanda fondamentale: «Perché scrivo?». Penso che in molti, tra quelli che praticano la scrittura, si siano posti una domanda come questa. Ma anche no, nel senso che forse non ci avete ancora riflettuto abbastanza. Bella domanda, vero? Se l’è posta anche Natalie Goldberg, in un capitolo del suo Scrivere Zen (Ubaldini, 1987). Non ho una particolare predilezione per quei testi e manuali del periodo in cui la new-age imperversava; parlare di spiritualità e di rituali quotidiani dove procedere dal particolare all’universale era una questione un po’ modaiola. C’erano cose interessanti come Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig e simili, ma poi mettere “zen” nei titoli diventò un espediente col quale gli editori vendettero più libri. Natalie Goldberg ha invece questa capacità sorprendente di descrivere l’attività della scrittura creativa con una tale semplicità e limpidezza da esser quasi disarmante. Parla del suo personale rapporto con la scrittura; fa affermazioni che di primo acchito sembrano “ovvie” ma in filigrana trasmette delle piccole-grandi verità; le ordina, le sfronda di ogni inutile e pleonastico apparato, le rispolvera e le mette agevolmente sotto gli occhi, così concrete e “scintillanti” che non puoi fare a meno di pensare: «Come ho fatto a non vederle prima? Eppure tocco con mano queste realtà ogni giorno!»
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Leggiamo un passo della Goldberg: «Perché scrivo? È una buona domanda. È bene farsela ogni tanto. Nessuna delle possibili risposte potrà farci smettere di scrivere, e coll’andar del tempo scopriremo che ce le siamo date tutte.
- Perché sono un cretino.
- Perché voglio fare una buona impressione sui ragazzi.
- Per far piacere a mia madre.
- Per far dispetto a mio padre.
- Perché quando parlo nessuno mi ascolta.
- Per fare la rivoluzione.
- Per scrivere il più grande romanzo di tutti i tempi e diventare miliardario.
- Perché sono nevrotico.
- Perché sono la reincarnazione di Shakespeare.
- Perché ho qualcosa da dire.
- Perché non ho nulla da dire. […]»
Questa è Natalie Goldberg. Poi cita un certo Baker Roshi che afferma: «Perché? Non è una buona domanda». Le cose sono quel che sono, scrive Goldberg. «Non il perché ma il che cosa», ha detto Hemingway. Uno che qualcosa ne sapeva, di scrittura. E Goldberg conclude: «Lasciamo il perché alla psicologia e limitiamoci a dare informazioni particolareggiate. È sufficiente sapere che vogliamo scrivere. Quindi, scriviamo». Intanto, però, se lo è chiesto e ha cercato di dare delle risposte, più o meno circostanziate.
Potremmo fare un esercizio propedeutico: prendete carta e penna, o aprite un memo sul pc o lo smartphone. «Perché vorrei scrivere?», chiedetevi. È quasi una domanda sorella di «Perché scrivo?» Non state a pensarci troppo: rispondete in modo chiaro e perentorio. Non è detto che ciascuna delle vostre risposte debba essere vera al cento per cento; contradditevi pure, non c’è problema. Stilate una lista. Per estrarre dal flusso della nostra vita una porzione significativa di esperienza dobbiamo cercare di fissarla con una qualche tecnica: la scrittura è una di queste tecniche. Fare. Fare. Fare. È probabile che se vi capitasse di fare una lista dei motivi per cui scrivete in tempi diversi, anche a distanza di qualche anno nella vostra esistenza, avreste liste sempre varie di motivi, di ragioni, di idee, emozioni e dettagli che si affacciano alla vostra mente.
Sempre Goldberg: «Scrivere ha un’energia incredibile. Se riusciamo a trovare una ragione per farlo, una ragione qualsiasi, sembra che anziché negare l’atto dello scrivere, essa ci consenta di imprimere a fuoco il nostro pensiero sulla pagina, guadagnandone in chiarezza e vigore». Vi sembra un buon viatico? Per quanto mi riguarda sì. Sbaraglia il campo da tutte quelle esitazioni, dubbi, soggezioni e ansie da prestazione che potremmo avere di fronte al foglio bianco e intonso. Alla prossima settimana, dunque. Parleremo (anche) di scrittura creativa.
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