Scrittura creativa – La voce (prima parte)
La voce nell’ambito della scrittura creativa è una questione fondamentale. Direi che se volete diventare dei lettori con un buon fiuto e/o scrivere con un minimo di “cognizione di causa” non potete esulare dall’argomento voce in un testo col quale vi confrontate. Visto che l’argomento richiede spazio, ho deciso che ne parlerò in due parti, di cui questa è la prima. In ogni opera di narrativa – ma possiamo estendere il concetto alla poesia, al testo di una canzone, al copione per il teatro, alle sceneggiature cinematografiche e ai vari testi etichettati come non-fiction – c’è una voce che ci sta parlando. La domanda che dobbiamo farci oggi è: «A chi appartiene la voce che sto leggendo o ascoltando?».
Capirete che non mi riferisco a una conversazione: escluse menomazioni o alterazioni cognitive, saprete bene chi è il vostro interlocutore mentre ci state parlando assieme. Anche un attore che recita su un palcoscenico è una voce riconoscibile: è Amleto che parla, piuttosto che Rosencrantz o Guildenstern. Le cose si complicano, invece, se udite la voce di un narratore fuori campo, al cinema; o dietro le quinte, a teatro: sareste sempre in grado di riconoscerne la voce? Alcuni semplificano riconducendo il problema della voce all’utilizzo, in narrativa, della prima persona (voce di un narratore interno alla storia) e della terza persona (narratore esterno). È vero in molti casi, ma è riduttivo e cercheremo di essere più precisi.
Per darvi indicazioni sul come riconoscere la voce in un testo procederò dal generale al particolare. Diremo pertanto che il nostro testo è sempre inserito in un circuito comunicativo dove ai due poli troviamo l’autore e il lettore:
Autore →[ Testo ] → Lettore
E fin qui non c’è bisogno di commentare. Proviamo invece a vedere questo:
Autore reale → [ Autore implicito > (Narratore) > (Narratario) > Lettore implicito ] → Lettore reale
Tutti i termini che trovate fra parentesi quadre si riferiscono a quel che è contenuto nel testo, nell’opera che di volta in volta andiamo ad analizzare e di cui siamo lettori. Lo schema che vi propongo è stato elaborato da Seymour Chatman nel suo Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film (Il Saggiatore, 2010). La prima cosa che salta all’occhio in questo schema è la sua simmetria: all’Autore reale corrisponde il Lettore reale, all’Autore implicito il Lettore implicito, al Narratore il Narratario. Le figure sono in stretta relazione, tanto che Autore reale e Lettore reale (i due estremi) potrebbero configurare un circuito comunicativo reale (è quel che avviene nella realtà: un autore scrive un romanzo e un lettore lo acquista e lo legge); le figure tra le parentesi quadre verrebbero, così, a configurare una sorta di circuito comunicativo immaginario, e vedremo come. Il Narratore e Narratario Chatman li pone tra parentesi, essendo concetti più sfumati e che non riscontriamo in ogni testo narrativo.
L’Autore reale designa la persona storica, l’autore dell’opera che stiamo leggendo. O lo conosciamo di persona, perché è vivente e ci siamo entrati in contatto, oppure lo possiamo conoscere in forma mediata, attraverso gli articoli sui giornali, in rete, le interviste, o attingendo a fonti documentali storiche. L’autore implicito non è altri che l’immagine dell’autore consegnata all’opera, l’idea dell’autore che il lettore desume dalle informazioni presenti nel testo. Immaginate che il nostro autore reale abbia scritto la sua autobiografia: la voce che leggeremo è quella di un autore implicito, ovvero la costruzione in prosa di un autoritratto che l’autore reale tende a comporre di sé, consapevolmente, talvolta in stridente contrasto con le informazioni che potremmo desumere su di lui da alcuni studi critici.
Milan Kundera interferisce come autore nelle sue narrazioni, diviene un autore-personaggio. In L’immortalità (Adelphi, 1990) si pone all’interno del romanzo già in apertura, facendo scaturire dal semplice gesto di un braccio il personaggio di Agnes: «La signora avrà avuto sessanta, sessantacinque anni. La guardavo, steso su una sdraio di fronte alla piscina di un circolo sportivo all’ultimo piano di un moderno edificio da dove, attraverso grandi finestre, si vede tutta Parigi. […] In ogni caso, nell’attimo in cui si girò, sorrise e salutò con la mano il giovane maestro di nuoto (che non resse e scoppiò a ridere), lei ignorava la propria età. In quel gesto una qualche essenza del suo fascino, indipendente dal tempo, si rivelò per un istante e mi abbagliò. Ero stranamente commosso. E mi venne in mente la parola Agnes. Agnes. Non ho mai conosciuto una donna con questo nome». La voce che abbiamo letto è quella dell’autore implicito Kundera, che non solo ci informa di come può nascere e svilupparsi un personaggio, ma probabilmente ha molte parentele con il Kundera reale nato a Brno nel 1929, che ora vive a Parigi e fa lo scrittore.
Il Narratore è la voce di quel personaggio che dice “io” nel racconto. O, nel caso di una storia narrata rigorosamente in terza persona, in modo “impersonale”, la voce del narratore è quella del responsabile dell’atto di enunciazione. In un romanzo in prima persona l’io narrante si mette a nudo e si rivela per gradi, attribuendosi caratteristiche e attitudini, visioni del mondo, pensieri, o si svela nell’interazione con altri personaggi. Nel racconto in terza persona abbiamo, in prima istanza la sensazione di sentir risuonare la voce dell’autore che “tutto sa” dei fatti e dei personaggi che dispiega sotto i nostri occhi. In Pastorale Americana di Philip Roth (Einaudi, 1997), leggiamo: «Lo svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo».
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Di chi è la voce che sta raccontando la storia dello svedese? Saremmo tentati di pensare che sia di Roth per le poche informazioni di cui disponiamo. Se ci addentrassimo nella lettura scopriremmo invece che a raccontare la parabola del successo personale dello svedese e la sua successiva caduta è Nathan Zuckerman, uno scrittore affascinato fin dall’adolescenza dalla vincente solarità dello svedese, di cui decide di raccontare la storia. Zuckerman è un alter-ego di Roth. In questo caso il narratore sfuma e viene riassorbito nella figura dell’autore implicito. Ma padroneggiare un personaggio come Zuckerman e farne l’autore implicito di un racconto è una gestione della narrazione che esige controllo e padronanza della voce: la visione di Zuckerman è parziale e interna alla vicenda che sta raccontando; Roth non si deve mai intromettere, pena la perdita di coerenza e coesione del tessuto narrativo. Roth può mettere in bocca a Zuckerman cose che anche lui pensa o ha vissuto, in gran parte, ma quel che dice e fa Zuckerman deve essere coerente esclusivamente con il suo personaggio. Cominciate a comprendere l’importanza di cogliere la voce nella strutturazione di un racconto?
Il Narratario designa il personaggio che compare eventualmente nel testo come destinatario del narratore. Se esulassimo, per un momento, dal circuito comunicativo immaginario (siamo dentro il testo, dentro la parentesi quadra) potremmo pensare a noi lettori come i narratari del narratore. Sarebbe corretto; in effetti sono più numerosi i romanzi e i racconti dove un narratario non è definito e il testo si rivolge esclusivamente al lettore. In Alla fine di un’infanzia felice (Mondadori, 2013) Gian Mario Villalta costruisce un romanzo dove viene scardinato il convenzionale patto narrativo. Il protagonista è Guido Devetta, un editor che lavora in una casa editrice di Pordenone. Un giorno arriva in redazione un plico diverso dagli altri: l’autore è Sergio Casagrande, un vecchio amico d’infanzia di cui Guido ha perso, in parte, le tracce. Il romanzo di Casagrande si intitola Alla fine di un’infanzia felice e quel che sorprende Guido è il fatto che uno dei personaggi cardine del romanzo sia proprio lui, Guido, della famiglia dei “Sain”, il soprannome loro affibbiato quando, da profughi istriani, si stabilirono nella campagna friulana. È questo un romanzo scritto per un solo lettore: Guido (leggi: il narratario). Il lettore “esterno” è quasi un intruso che assiste per frammenti, come ricomponesse un puzzle, allo sviluppo della storia di Guido e Sergio.
I lettori virtuali e reali ce li teniamo per il prossimo appuntamento con le nostre lezioncine di scrittura creativa, dove parleremo ancora di voce e dei suoi casi particolari. A presto.
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