Scrittura creativa – Il personaggio
Questa volta mi sono preso una bella gatta da pelare. Parlando di scrittura creativa, il personaggio sembra essere l’elemento che più è stato analizzato dalla critica. Non starò qui a farvi una rassegna degli studi (con buona pace di Propp e degli strutturalisti), ma cercherò di andare sul concreto. Chiediamoci, dunque, come scrittori e lettori: cosa rende veramente efficace un personaggio e come costruirlo con cognizione di causa?
Sono più che certo che dei (molti) libri di narrativa che avrete letto ricorderete di sicuro un personaggio più che lo stile del romanzo o alcune delle sue pagine particolarmente riuscite.Questo perché il personaggio ha “bucato” la pagina e si è insediato stabilmente nel vostro immaginario. Ci sono personaggi che hanno dato nome ai romanzi che li vedono come protagonisti: Anna Karenina, Madame Bovary, David Copperfield, Emma, Il giovane Holden, Martin Eden. Potremmo pensare a La versione di Barney priva di Barney Panofsky? O Moby Dick senza il capitano Achab? Per non dire dei comprimari: cosa ce ne faremmo di un Don Chisciotte orfano di Sancho Panza, di Sherlock Holmes monco del dottor Watson o di Batman senza Robin?
Seymour Chatman, e con lui Cesare Segre, concordano sul fatto che i personaggi sono “esseriautonomi” e non solo pure funzioni dell’intreccio. Presentano una loro individualità, una personalità strutturata e uno status anagrafico, anche se fittizio. Se avete in mente di scrivere un romanzo o un racconto ci saranno già una serie di eventi che desiderate distribuire nella narrazione. Ognuno dei personaggi che metterete in campo sarà portatore di alcune azioni correlate a questi fatti, e diverrà responsabile delle loro conseguenze, in misura maggiore o minore rispetto al grado di coinvolgimento nella storia. Provate a disporvi come se foste il regista di una pièce teatrale. Siete seduto in sala e osservate i vostri personaggi che interagiscono tra di loro sul palcoscenico. Ponetevi, allora, due semplici domandine: chi sono? Cosa fanno?
Rispetto al “chi sono”, il mio consiglio è di provare a scrivere, a parte, la loro biografia. Non è necessario che scriviate la biografia di ciascuno dei personaggi che metterete in scena, ma quelli principali sì. E non è detto che la biografia debba essere minuziosa: servono solo quelle informazioni che sono utili a gettare luce sulle caratteristiche del vostro personaggio. Come autori dovreste cercare di conoscere il più possibile i vostri personaggi; e non sentitevi obbligati a dare tutto in pasto al lettore: alcuni elementi della biografia dei personaggi li conoscerete solo voi e potete ometterli se non sono funzionali al racconto. Che bisogno c’è di “caricare” il lettore di informazioni superflue e ridondanti? Il personaggio si rivela quando agisce e quello “svelamento” dev’essere limpido e ben definito nella vostra testa. Per il lettore, se non è del tutto chiaro è anche meglio: permane quell’alone di mistero, il pungolo a scovare indizi, a riflettere sulle motivazioni e peculiarità del personaggio. Al lettore non piace che gli venga detto tutto; è quasi un insulto al suo acume e alla sua intelligenza.
Come autori vi stupirà il fatto che, una volta che avrete assegnato delle caratteristiche fondamentali ai vostri personaggi, è abbastanza probabile ch’essi si comporteranno nientemeno che in stretta coerenza con la biografia e il temperamento che gli avete modellato. Se vi stupiscono con un cambiamento rilevante e repentino rispetto a quel che avete immaginato di loro, è evidente che qualcosa è intervenuto a modificare la loro vicenda e il loro atteggiamento nei confronti della vita. La sostituzione di un tratto psicologico con un altro, nel corso del racconto, rivela la loro capacità di evoluzione. Il personaggio si allontana dal “tipo” per diventare un “individuo”. Mi spiego con un celebre aforisma di W.C. Field: «Un uomo che odia i cani e i bambini non può essere completamente malvagio». Possiamo intuire che un personaggio con questi tratti abbia, per così dire, i suoi buoni motivi: perché non sopporta i cani o i bambini? Gli è stato fatto un torto quand’era piccolo? È stato morso da un cane? Ha subìto qualche trauma? E se, nel corso della nostra storia, lo scopriamo commuoversi per un neonato, cos’è accaduto? Il pupo è forse un suo figlio ripudiato? Era in fuga dalle responsabilità paterne? La sua “apparente” brutalità si è improvvisamente sgretolata di fronte a un evento che ha sovvertito il suo modo di concepire alcuni aspetti della vita. Guardate un film come Gran Torino (2008), con un formidabile Clint Eastwood, per capire cosa intendo. Da burbero e intollerante razzista l’anziano reduce della guerra di Corea Walt Kowalski, residente in un quartiere popolare americano, diverrà un difensore dei suoi vicini: una debole etnia di asiatici sottoposti a dure vessazioni.
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Harold Pinterha scritto: «I personaggi che crei ti osservano con ostilità. Ho provato due diversi dolori dai miei personaggi. Ho sperimentato la loro sofferenza, quando mi accorgevo a distorcerne o falsificarne il carattere, e ho provato dolore quando non riuscivo ad afferrarli, quando intenzionalmente mi sfuggivano, ritirandosi nell’ombra. Senza dubbio esiste un conflitto tra uno scrittore e i personaggi che crea; nel complesso direi che chi vince sono i personaggi: dev’essere così». E continua dicendo che quando un autore s’impone modelli troppo rigidi e non permette alle sue creature di sparigliargli le carte, di avere vita propria, il risultato è un fallimento.
A volte il personaggio è così “ingombrante” e ha una tale influenza sul suo autore che, dopo aver trascorso mesi in sua compagnia, scrivendone le vicende per imbastire un romanzo, lo scrittore finisce per sentirsi quasi “sollevato” nel doverlo congedare dal suo orizzonte narrativo. Ad alcuni queste mie riflessioni potranno sembrare dei vaneggiamenti, eppure vi assicuro ch’è così. Obietterete che in realtà l’autore si rende “disponibile” a farsi tiranneggiare dai suoi personaggi, che questa dinamica potrebbe configurarsi come un capovolgimento dell’usuale patto narrativo che presuppone una “sospensione dell’incredulità” da parte del lettore.
In effetti, se ci atteniamo esclusivamente a una lettura critica, non dovremmo dimenticare che in realtà il personaggio non ha quella “vita autonoma” che autore e lettore fingono che abbia. È una costruzione testuale o, meglio, un’aggregazione d’informazioni. Verissimo. Ma ora pensate di dover fare un lungo viaggio in treno. Siete in uno scompartimento, in compagnia di almeno tre persone. All’inizio, per voi, quegli sconosciuti sono solo volti; li percepite come esseri indifferenziati rispetto a tutte quelle persone che avete incrociato nel frenetico andirivieni della stazione. Li osservate meglio e magari vi incuriosiscono il loro abbigliamento, le acconciature, gli oggetti che portano con sé. Qualcuno inizia a parlare: si esprimono opinioni, preferenze, si commentano notizie, si risponde al telefono e trapelano aspetti più confidenziali delle loro vite. Cominciate a fantasticare su di loro, a porvi domande e intuire, dalle loro risposte, che possano vivere in un modo o in un altro. Parlando, gli rivolgete qualche domanda e il ventaglio di informazioni si arricchisce. Cominciate a guardare con altri occhi i vostri interlocutori, e al termine del vostro viaggio in treno non sono più estranei ma si sono già trasformati in “personaggi”.
Per E.M. Forster ci sono personaggi piatti o disegnati (flat characters), abbozzati su una sola idea o qualità, e personaggi modellati, a tutto tondo (round characters), più complessi e disponibili per una vita più larga. Non stiamo parlando di personaggi di rango inferiore e superiore: non è una scala di valori. Entrambe le tipologie permettono di ottenere variazioni e particolari effetti all’interno di una strategia narrativa. I motivi che possono indurre un autore a introdurre personaggi di diversa complessità nelle proprie opere sono diversi e difficilmente schematizzabili; talvolta non si tratta neanche di dinamiche o costruzioni del tutto consapevoli per l’autore medesimo. Certo è che un round character presenta tutte le potenzialità evolutive che possono avere presa sul lettore, indurlo a riflettere e perché no (è la più legittima aspirazione di ogni scrittore) regalargli emozioni profonde e durature nel tempo, come se si trattasse di esperienze di vita reale. Regalare emozioni. Non riesco a pensare a niente di meglio che non tramuti un tipo in un personaggio, un “essere” dotato di una sua individualità e vita autonoma che perdura come “esperienza” personale del lettore, anche dopo aver riposto il libro sullo scaffale.
Ho tentato di descrivere il “chi sono”; la prossima volta parleremo del secondo aspetto, ovvero del “cosa fanno”; di quegli elementi, in scrittura creativa, che di fatto caratterizzano un personaggio. A presto.
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