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Scrittura creativa – Il flusso di coscienza

James Joyce, Flusso di coscienzaDel flusso di coscienza, cari amici scrittori, avrete sentito parlare svariate volte. Il termine si sovrappone, in alcuni manuali di scrittura creativa o testi critici, a quello di stream (in inglese: corrente, flusso), di stream of consciousness (flusso di coscienza) o a quello di monologo interiore, per citarne alcuni. Non è un caso che io abbia scelto di parlarvene proprio ora, quando posso immaginare abbiate già qualche conoscenza sulla voce, sul punto di vista e sulla focalizzazione. In effetti, possiamo ricondurre la tecnica del flusso di coscienza ad alcune considerazioni sulla voce che compie l’atto di enunciazione.

Possiamo, convenzionalmente, stabilire che le parole e i pensieri di un personaggio sono riferibili dal narratore in presenza di forme “legate”: tagged, come le chiama Seymour Chatman in Storia e discorso (Il Saggiatore, 2010), vale a dire che presentano un sintagma di legamento (tag). Questi sintagmi sono verbi come “disse” o “pensò” eccetera. Nelle forme “libere” la voce del personaggio sostituisce temporaneamente quella del narratore, e in genere è introdotta da espedienti grafici come le virgolette, il trattino, i caporali. Tali espedienti sono frequenti ma non necessari in assoluto. Se vogliamo, la distinzione tra forme “libere” e “legate” coincide con quella tradizionale di discorso diretto e indiretto.

Ma come citare gli esatti pensieri di un personaggio?Gran parte della vita psichica non è verbalizzata, è pura percezione o attività psichica inconscia. Non è questa la sede per tracciare una storia delle tecniche utilizzate per riferire i pensieri dei personaggi, ma rappresentare il pensiero come un dialogo, come un discorso rivolto a se stessi, ovvero un monologo interiore, è risultata per molti secoli una convenzione dominante. Possiamo definirla come una citazione di pensieri in stile diretto libero, cioè non introdotta da espedienti grafici né da verbi che indichino l’atto del pensare.

La vera rivoluzione nella tecnica di rappresentazione dell’attività psichica si avrà con le avanguardie del Novecento, negli anni in cui si sviluppano le teorie psicanalitiche, e in special modo in due romanzi: Ulisse (1922) di James Joyce e La signora Dalloway (1925) di Virginia Woolf. In particolare Joyce farà della libera associazione di pensieri, del flusso di coscienza, il criterio dell’attività psichica, verbalizzata e non, conscia e inconscia, sviluppando la tecnica fino a esiti formali assolutamente inediti.

Potremmo parlare per ore del monumentale romanzo di Joyce, vera croce e delizia per chi si occupa di scrittura.Vi consiglio la lettura di una recente edizione tradotta da Gianni Celati per Einaudi (2013). Nella sua versione Celati ha cercato di trasporre nella nostra lingua il sottofondo musicale del romanzo, opera di un appassionato melomane, che voleva diventare un tenore. L’Ulisse, col suo protagonista, l’ebreo errante Leopold Bloom, “reinventa” per così dire, i moduli della classicità recuperando le unità di tempo, di luogo e azione codificate da Aristotele per la tragedia, ambientando in una giornata (il 16 giugno 1904) e in un solo luogo, Dublino, la sua narrazione. Bloom passeggia per la città, in un continuo “fuori” e “dentro” di grande impatto realistico, dove tutti i generi sono praticati dall’autore: dal poema epico (e il modello omerico è evidente) al parodistico, dal sermone biblico al dramma teatrale, dal tono lirico alla trattatistica. Per il nostro discorso sul flusso di coscienza vi invito a confrontarvi, in assoluta solitudine e raccoglimento, col capitolo finale del romanzo, un magistrale flusso al femminile, attribuibile a Molly (la Penelope del romanzo, moglie di Leopold), in otto lunghi periodi privi di punteggiatura! L’intento mimetico di Joyce era di rendere il flusso di pensieri al femminile ispirandosi alla scrittura della moglie Nora, non avvezza a scrivere, ch’era solita inviargli lettere in cui la punteggiatura era pressoché abolita.

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L’anti-eroe Leopold Bloom, ebreo irlandese, vaga per Dublino: presenzia a un funerale, “rumina” sul fatto che la moglie lo tradisce; entra in un bordello dove incontra una sorta di “figlio ideale” (Stephen Dedalus); ha slanci lirici ma i suoi orizzonti sono limitati, cerca di trarre profitto anche dalle opportunità più squallide, come vendere foto della moglie nuda. Vi vorrei presentare una pagina, tratta dall’episodio denominato in seguito (per comodità critica), Nausicaa – Le rocce. Nell’episodio Bloom passeggia al tramonto per la spiaggia di Sandymount e osserva da lontano, senza esser visto, una fanciulla, Gerty Mac Dowell. La ragazza pensa all’amore, al matrimonio e alla femminilità. Il registro usato è quello, in chiave parodistica, delle novelle sentimentali e delle riviste femminili. Gerty, ignara, offre allo sguardo di Bloom le gambe tornite e la biancheria intima. Bloom carica di fantasie erotiche la scena, che trova il suo culmine con i fuochi d’artificio che scoppiano in un vicino bazar. Per Bloom Gerty è una sorta di fiore, un’icona della nuova Irlanda; ma mentre lei si alza e si allontana, si rende conto ch’è zoppa:

«Scarpe strette? No, è zoppa! Oh! Mr Bloom la guardò allontanarsi zoppicando. Povera ragazza! Ecco perché era rimasta a sedere sulla sporgenza, mentre le altre sono partite di corsa. Mi pareva ci fosse alcunché d’insolito nelle sue mosse esterne. Beltà di sciupata vaghezza. Un difetto in una donna vale dieci volte tanto. Ma le rende gentili. Contento di non averlo saputo quando si metteva in mostra. Però un’indiavolata, nonostante tutto. Non mi spiacerebbe di. Curiosità. Come una suora, una donna nera, una ragazza con gli occhiali. Quella là strabica è una difficile. Sta per avere le sue cose, ho idea, quello le rende ombrose. Oggi ho un mal di testa! Dove ho messo la lettera? Ah, eccola. Hanno voglie matte di tutti i generi.»

Il brano che vi ho citato è breve ma molto efficace per sottolineare alcuni aspetti del flusso di coscienza di Joyce. È come se impiantassimo un elettrodo nella testa di Bloom e quello che leggiamo fosse il tracciato della sua attività mentale. Quel «Scarpe strette? No, è zoppa! Oh!» potrebbe essere un monologo interiore classicamente inteso, dal punto di vista della tecnica di rappresentazione dei pensieri. Ma quel che segue ha un andamento “irrazionale”, è il procedere ondivago del pensiero, analogo per certi versi a quel che prospettava Freud col metodo delle libere associazioni in psicanalisi. Le frasi sono brevi e paratattiche. Addirittura si inceppano, come per quel «Non mi spiacerebbe di.». Il flusso delle fantasticherie tipicamente maschili (e maschiliste, se vogliamo) si interrompe, in seguito, passando dall’interno all’esterno, con il manifestarsi di un sintomo fisico che viene verbalizzato («Oggi ho un mal di testa!») e con la successiva domanda: «Dove ho messo la lettera?». Poi la trova e il flusso riparte.

I flussi di coscienza nell’Ulisse occupano una parte rilevante; il romanzo è stato sperimentale all’epoca e ha costituito il giro di boa delle avanguardie letterarie. Dopo Joyce, estimatori e detrattori non hanno potuto esimersi dal confronto-scontro con questo romanzo, che ha aperto la via al romanzo moderno e, nel caso della tecnica del flusso di coscienza, a tutti quegli stati alterati di coscienza che hanno costituito la cifra di tanta letteratura contemporanea. Oggi il ricorso al flusso di coscienza così come lo ha inteso Joyce viene utilizzato dagli scrittori per qualche citazione o omaggio a un modello di riferimento; oppure per brevi incisi in narrazioni più o meno convenzionali. Faccio un caso per tutti: leggete qualcosa di Don DeLillo. Underworld (Einaudi, 1997); o Cosmopolis (Einaudi, 2003). Scoprirete, in alcuni passaggi della sua narrativa, come ha tesaurizzato la lezione joyciana.

Nel prossimo incontro parleremo di Virginia Woolf e del suo “scavare caverne attorno ai personaggi”. Ancora scrittura creativa e, per certi aspetti, flusso di coscienza. Vi aspetto. 

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