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Scrittura creativa – I dialoghi

DialoghiScrivere dialoghi è un’altra delle forche caudine della scrittura creativa. E qui vi voglio: potete essere bravi quanto volete a descrivere nei dettagli, a tratteggiare personaggi memorabili, a costruire intrecci complessi, ma far parlare i personaggi delle vostre storie nella maniera più naturale possibile è un compito difficile. Non c’è una “regola” o uno “schema” da seguire per scrivere buoni dialoghi. Un buon dialogo è il prodotto di un “istinto” narrativo ben direzionato, di una sensibilità che si affina con l’esercizio continuo della scrittura e della lettura di prodotti dei generi più diversi, come andrò a illustrarvi.

Provate a pensare se vi capitasse di registrare una chiacchierata tra amici: che vociare frammentato, che ping-pong verbale. Tic-tac-tic-tac, riascoltandolo potreste marcarne il ritmo. Il dialogo è fatto di pause, esitazioni, brusche accelerate, rallentamenti imprevisti, ripetizioni. È melodia, ritmo sincopato, extrasistole e tachicardia. È molto probabile che, esercitandovi, scriviate pagine di dialoghi che vi sembreranno artificiosi, impacciati e falsi. È tutta palestra, e va bene. Scrivere dialoghi è frutto dell’esperienza: più lo si fa più facile diventa. Come nuotare, correre o suonare uno strumento musicale.

Un dialogo efficace porta avanti la storia, comunica eventi e informazioni utili al lettore. In più: rivela il personaggio. Se vi dico monologo, per esempio, vi sovviene il monologo teatrale e la sua tradizione più nobile (uno per tutti: «Essere o non essere» di Amleto). Il personaggio, col suo monologare, intrattiene un rapporto intimo con il pubblico (gli spettatori, in teatro; i lettori, nelle pagine di un testo). Anche il flusso di coscienza è una forma di monologo. Il personaggio ci mette a parte delle sue intenzioni (che talvolta sono antitetiche rispetto alle azioni) e dei suoi pensieri più riposti. Vorrei soffermare la vostra attenzione su un celebre incipit, costruito come un monologo, dove il protagonista del romanzo si presenta al suo lettore e, come se dialogasse con lui, rivela il motivo per cui si è messo a scrivere (l’autore attua una mimesi del dialogo naturale): «Tutta colpa di Terry. È lui il mio sassolino nella scarpa. E se proprio devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata. Fra l’altro mettendomi a scribacchiare un libro alla mia veneranda età […]». (La versione di Barney, Adelphi, 2000, traduzione di Matteo Codignola).

Per scrivere un buon monologo (ma vale anche per un dialogo a due o più personaggi) dovete imparare ad associare in tutta libertà, a partire da ogni pretesto utile. Istituite collegamenti, anche lontani tra loro, saltate di palo in frasca o inceppatevi, come fareste pensando tra voi e voi. Un po’ come per il flusso di coscienza, bisogna saper gestire l’implicito: uno non dice quel che già conosce; occorrono delle frasi sottintese, involute, talvolta autoreferenziali. L’importante, per lo scrittore, è non perdere il senso del discorso e il messaggio che si intende veicolare.

Il dialogo più autentico, però, è il call and response, il botta e risposta. I grandi drammaturghi, gli sceneggiatori, gli scrittori più dotati rivelano, al riguardo, un grande senso del ritmo. Io consiglio sempre di leggere delle sceneggiature: provate con Manhattan (RCS Libri, 2001), di Woody Allen (ma vanno bene anche altri suoi film: Allen ci sa fare con i dialoghi!). Un’altra sceneggiatura dalla quale ho imparato molto è lo screenplay di Lolita (Bompiani, 1997), a firma di Vladimir Nabokov, specie se comparato al romanzo del medesimo autore. Un grande maestro e un riferimento costante, per i dialoghi, è Harold Pinter (1930-2008). Pinter è stato attore, regista, drammaturgo, sceneggiatore per il teatro, cinema e Tv, poeta e scrittore; è stato autore di alcune commedie considerate veri e propri capolavori del teatro dell’assurdo. I dialoghi di Pinter sono inconfondibili per il loro ritmo, la loro naturalezza, lo humor caustico che sprigionano quasi involontariamente, frutto di una scrittura sicura e padrona di toni, registri e tempi. Ho isolato per voi un brano tratto da L’amante (Teatro, II, Einaudi 2005, traduzione di Alessandra Serra):

RICHARD: (amorevolmente) Viene il tuo amante, oggi?

SARAH: Mmnn.

RICHARD: A che ora?

SARAH: Alle tre.

RICHARD: Uscite… o restate in casa?

SARAH: Oh… restiamo in casa.

RICHARD: Non volevi andare a vedere quella mostra?

SARAH: Sì… ma oggi preferisco restare qui, con lui.

RICHARD: Mmn-hmmn. Beh, io devo scappare. (Va all’ingresso e si mette la bombetta) Resterà a lungo?

SARAH: Mmmnnn…

RICHARD: Allora… ci vediamo verso le sei.

SARAH: Sì.

RICHARD: Divertiti.

SARAH: Mmnn.

RICHARD: A più tardi.

SARAH: A più tardi.

La conversazione è un tipo peculiare di dialogo. Una conversazione ha la caratteristica di essere polifonica, a più voci. La tendenza di questo tipo di dialoghi va nella direzione della dispersione, come accade nella realtà, e della digressione. I partecipanti a una conversazione hanno, in genere, un tema di fondo che varia in continuazione. Ci sono luoghi privilegiati per conversazioni di questo tipo, come il tavolo di un ristorante, le sale d’aspetto, le file all’ufficio postale o al cinema, le spiagge, il bar. Vi esorto, come esercizio, a visionare i primi dieci minuti di un film di Quentin Tarantino, Le iene (1992), per comprendere meglio di cosa sto parlando. Il tono di queste conversazioni è leggero, disimpegnato, nonsense a volte. Gli argomenti più tipici: le donne (per gli uomini), gli uomini (per le donne), le malattie, il denaro e… il principe delle conversazioni: il tempo atmosferico!

Una conversazione del tipo che vi ho appena descritto non è facile da gestire. L’esercizio di mimesi consiste nel rendere un ritmo fluido, il più possibile naturalistico, come fosse una presa diretta. I personaggi parlano in certi casi senza costrutto, con frasi sospese, con anacoluti, sovente senza rispettare le gerarchie grammaticali. A volte compaiono il turpiloquio, il linguaggio gergale, e anche l’intertestualità. A proposito dell’intertestualità: fare riferimento a un patrimonio culturale condiviso di libri, film, Tv, musica, fotografia, fumetti eccetera è una tecnica utilizzata da quegli autori che intendono volutamente strizzare l’occhiolino a un parco di lettori spesso “seriali” e di sicuro competenti in materia.

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Vi vorrei sottoporre, in questa sede, la pagina di una graphic novel della serie Ultimate Spider-Man della Marvel. Si tratta di una serie a fumetti in cui si raccontano le avventure, in una forma riscritta per il moderno villaggio globale, del classico Uomo Ragno, dove il protagonista Peter Parker è in età da liceo, e presenta le problematiche tipiche dei teen-ager di oggi. L’autore Brian Michael Bendis è molto abile nel comporre dialoghi di gruppo e qui immagina una parentesi di relax in una spiaggia affollata, dove Peter, Johnny Storm dei Fantastici Quattro e Bobby Drake degli X-Men chiacchierano tra loro di varie amenità, mentre le loro compagne di scuola sguazzano a pochi metri dalla riva. È un dialogo a tre, dove le citazioni si sprecano; i rimandi sono ad almeno tre pellicole: Billy Madison (1995, diretto da Tamra Davis), Billy Elliot (2000, diretto da Stephen Daldry) e Atto di forza (1990, diretto da Paul Verhoeven). C’è, in più, un insistito riferimento a un personaggio del Marvel Universe che non è presente nella storia in questione, ma è una vecchia conoscenza dei lettori Marvel: Nick Fury.

JOHNNY: Nessuno di voi ha mai visto il film “Billy Madison”?

PETER: Quello sul ragazzino che danza?

JOHNNY: Cosa? No, quello con Adam Sandler.

BOBBY: Io l’ho visto.

JOHNNY: Ieri notte ho sognato che ero prigioniero di quel film.

BOBBY: Prigioniero?

JOHNNY: C’ero dentro e non potevo uscirne.

BOBBY: È un film orribile.

JOHNNY: Non ho detto ch’era un bel sogno.

BOBBY: Ehi, qualcuno di voi ha saputo qualcosa di Nick Fury?

PETER: Ehi, ragazzi, non…

BOBBY: Cosa?

PETER: Non con tutta questa gente.

JOHNNY: Cosa?

PETER: Non parlare di queste cose di fronte a tutti.

JOHNNY: Non ci sentono.

PETER: Ti prego.

JOHNNY: Dovresti dire a tutti chi sei.

PETER: Hai ragione, dovrei. No, aspetta. Ti sbagli. Non dovrei.

JOHNNY: Dovresti.

PETER: Non dovrei affatto.

BOBBY: Odio Nick Fury.

PETER: Io sono indeciso.

BOBBY: La benda sull’occhio mi inquieta.

JOHNNY: Bè, non puoi farci niente. Ha perso un occhio.

BOBBY: Ho sempre pensato che ci fosse un quato dietro quella benda.

PETER: Un cosa?

BOBBY: Vi ricordate “Atto di forza”? Il tizio si tira su la camicia e aveva un piccolo quato. Ho sempre pensato che lui avrebbe sollevato la benda e che questo piccolo quato Nick Fury avrebbe detto “Salve, come va?”

JOHNNY: È una carogna. Tanto meglio che sia sparito.

PETER: Non è una carogna.

JOHNNY: Fidati. Quando verrà fuori tutto su di lui, te ne accorgerai.

PETER: Bè, ora è sparito, quindi.

RAGAZZE: Ehi! Venite ragazzi?

PETER: No.

RAGAZZE: Ci sono delle ragazze qui.

PETER: Oh, sì.

(Brian M. Bendis, Amici stupefacenti, Marvel Italia 2009, traduzione di Pier Paolo Ronchetti).

 

Da questi brevi esempi risulta evidente come i dialoghi abbiano l’obiettivo di rappresentare un amalgama, come nella vita reale, di colloqui banali e di frasi più importanti, a volte definitive e terribili nel loro significato. Molte di queste frasi assumono valenze simboliche e i contenuti vanno letti nell’implicito, nel sottinteso e nell’ambivalenza di quanto viene detto. Ecco un buon esercizio: “Inventate una breve storia e dipanatela tutta attraverso un dialogo tra personaggi (due, tre, quanti vi pare). Cercate di sintonizzarvi sul vostro ritmo interiore, sul vostro respiro, sulla vostra esperienza di parlanti. Provate a rileggere il vostro racconto ad alta voce. Ha il giusto ritmo? È regolare, sincopato, in levare? Quale effetto volevate ottenere? Sottraete, pensate a come parlereste nella vita comune, non al vostro stile.” Cosa ne pensate: siete un po’ più vicini a diventare dei maestri di scrittura creativa in fatto di costruzione dei dialoghi?

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