Scrittura creativa – Focalizzazione
Buongiorno. Riprendiamo da dove abbiamo chiuso la volta scorsa, e cioè dal concetto di focalizzazione. La focalizzazione, dicevamo, è l’adozione di un punto di vista particolare, ristretto e determinabile in relazione alla storia. Va rilevato che sono stati diversi i tentativi di descrivere in modo sistematico ed esaustivo il punto di vista in narrativa, così come – se vi capita di leggere dei manuali o dei testi specialistici – è possibile ricorrere a diverse terminologie e soluzioni. Io preferisco attenermi alla proposta di Gérard Genette, lo strutturalista francese autore di Figure III (Einaudi, 1976-2006) che vi ho già segnalato, perché lo trovo efficace sulla scorta del confronto con la narrativa che ho letto.
Non è che un autore si sveglia il mattino e si pone, normalmente, la questione: «Che focalizzazione voglio utilizzare per il racconto che scriverò oggi?». Agisce in base al suo istinto, al suo gusto, a quel che gli sembra più efficace e si preoccupa, in seguito, di esaminare se il suo testo funziona, se ha creato una struttura coerente. In questo preciso momento di riflessione interviene l’analisi narratologica. Dobbiamo perciò tener presente che non sempre il ricorso a un punto di vista da parte di uno scrittore è rigoroso e costante. Nell’ambito di un sistema in cui è dominante un punto di vista, è possibile il verificarsi di mutamenti e infrazioni. Lo stesso Genette scrive, infatti: «La formula di focalizzazione (leggi: l’apparato dei punti di vista) non coinvolge […] sempre un’opera intera, ma piuttosto un segmento narrativo determinato, che può essere brevissimo».
La distinzione delle focalizzazioni non dovrebbe risultarvi complicata; c’è forse qualche caso particolare ma da lettori avrete sicuramente preso confidenza con questi elementi:
a) Focalizzazione zero. È il punto di vista del narratore onnisciente; chi racconta sa tutto e vede tutto. Ne sa più anche di un personaggio o di un narratore di secondo grado coinvolti nella storia. Va precisato che questo tipo di narratore non descrive o racconta tutto. Opera una selezione del materiale da raccontare, ma dispone di arbitrio e di una capacità potenzialmente illimitata di attingere informazioni. Un esempio: andate a leggere l’incipit di A sangue freddo (Garzanti, 1965-2005) di Truman Capote. «Il villaggio di Holcomb si trova sulle alte pianure di grano del Kansas occidentale, una zona desolata che nel resto dello stato viene definita “laggiù” […]». Si tratta di uno sguardo d’insieme sul villaggio che diventerà teatro di un omicidio efferato e gratuito; l’intento è quello di offrire al lettore il fondale dove si svolgerà l’azione. Ma chi sta osservando Holcomb? Non certo un personaggio; nessun personaggio ha ancora fatto la sua comparsa e non è possibile, per il lettore, immedesimarsi in un personaggio della storia. Il narratore, se proseguite la lettura, conosce molto bene la cittadina e ci fornisce informazioni; nessun personaggio potrebbe osservare tutti i luoghi descritti in una sola occhiata. Notate l’aggettivo “desolata”: è un giudizio sulle caratteristiche del luogo, così come la frase: «[…] cupe detonazioni che facevano divampare incendi di sfiducia […]» [traduzione di Mariapaola Ricci Dèttore]. È un narratore esterno alla storia, onnisciente, che ci sta offrendo un suo punto di vista da una prospettiva, diciamo così, sovrapersonale.
b) Focalizzazione interna. Il narratore dice solo quello che sa il personaggio posto in evidenza di volta in volta, di cui adotta il punto di vista. Nella 1) focalizzazione interna fissa il punto di vista è quello di un solo personaggio. C’è un film intrigante di Bryan Singer, I soliti sospetti (1995), retto da un solida sceneggiatura di Christopher McQuarrie. Dopo l’esplosione di una nave sospettata di trasportare droga nel porto di San Pedro, a Los Angeles, il piccolo truffatore storpio Roger Kint, detto “Verbal”, è implicato nella vicenda con altri sospetti. In seguito viene prosciolto dal procuratore, ma comunque costretto a subire un ultimo interrogatorio dall’agente di polizia doganale David Kujan. Lo spettatore apprende il dipanarsi della vicenda dalle parole di “Verbal” (interpretato da un magistrale Kevin Spacey); il punto di vista è parziale, limitato a quel che riferisce Roger Kint. La storia viene presentata come la ricostruzione della deposizione del truffatore, di cui si adotta il punto di vista. Sarà una deposizione attendibile? Se non l’avete ancora visto potrete accertarvene recuperando la pellicola. Nella 2) focalizzazione interna variabile i punti di vista adottati sono di più personaggi in successione. È il caso, per citarne uno, di Madame Bovary (1856) di Gustave Flaubert, dove vengono presentati i fatti prima dal punto di vista di Charles Bovary, poi di Emma e infine ancora di Charles. Nella 3) focalizzazione interna multipla i punti di vista adottati sono di più personaggi contemporaneamente; o, meglio, per uno stesso evento. Altro film da mettere in cineteca: Invito a cena con delitto (1976) diretto da Robert Moore e scritto dal commediografo Neil Simon. È una commedia eccentrica, con un bel cast; la trama, ispirata a Dieci piccoli indiani (1939) di Agatha Christie, vede i cinque più grandi investigatori viventi ospiti per cena nella magione del misterioso miliardario Lionel Twain. Il padrone di casa promette un milione di dollari a chi risolverà un caso: rivela infatti che a mezzanotte precisa qualcuno dei presenti verrà assassinato e il colpevole è da ricercarsi tra gli stessi convitati. Il racconto si snoda ricostruendo e rimontando la dinamica dell’omicidio secondo il punto di vista di ciascun investigatore. Avremo perciò cinque differenti versioni del modus operandi dell’assassino e… forse cinque potenziali assassini.
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c) Focalizzazione esterna. Il narratore dice meno di quanto ne sappia il personaggio (o i personaggi). Il punto di vista è, in altre parole, quello di un narratore estraneo alla storia, in grado di descrivere esclusivamente le azioni dei personaggi, ma non entrare nei loro pensieri o sentimenti. Non può neanche muoversi nel tempo e nello spazio; non è in grado, cioè, di dire cosa accade altrove nello stesso momento, o quel che accadrà in seguito, o quel ch’è accaduto in passato al personaggio. Paradigmatico, in questo senso, un racconto di Ernest Hemingway, Colline come elefanti bianchi, ne I quarantanove racconti (Oscar Mondadori, 1993), una silloge che da sola vale un corso di scrittura, altro che i miei sproloqui! «Le colline che attraversano la valle dell’Ebro erano lunghe e bianche. Di qua non c’era ombra né alberi e la stazione era tra due file di binari sotto il sole. […] L’americano e la ragazza che era con lui sedevano a un tavolo all’ombra, fuori dall’edificio. […] – Cosa prendiamo? – chiese la ragazza –. Si era tolta il cappello e lo aveva messo sul tavolo. […]» [traduzione di Vincenzo Mantovani]. Non vi posso citare il racconto per esteso in questa sede, ma se continuaste a leggere, notereste come il comportamento dei personaggi sia osservato dall’esterno. Il lettore non sa nulla dei pensieri, non vede l’ambiente attraverso i loro occhi. Non gli vengono riferite le emozioni che l’uomo e la donna provano. Può solo supporre che l’americano se ne andrà col treno per Barcellona, che tra i due c’è stata una relazione e… Il narratore non commenta; di sé rivela che è in un posto: “di qua”. Il ricorso all’imperfetto crea un senso di indeterminatezza temporale. Il racconto procede come la registrazione di un dialogo enigmatico tra i due, interrotto da brevi didascalie. Immaginate di essere seduti accanto a due sconosciuti e di tentare di ricostruire, da quel che si dicono, chi sono e la loro vicenda. È questo l’effetto che Hemingway intendeva ottenere. Un racconto fatto di brevi didascalie (quasi come in una sceneggiatura cinematografica), di dialoghi, di gesti e di possibili deduzioni su quanto i personaggi provano e sentono, a partire dai pochi elementi messi in scena. La focalizzazione esterna è cara (comprensibile) agli scrittori di romanzi o racconti polizieschi (vedi Raymond Chandler) perché consente di tacere informazioni che si possono svelare al momento dello scioglimento, per creare atmosfere enigmatiche e di suspense. La troviamo in molti romanzieri americani tra le due guerre, ma anche nell’opera del minimalista Raymond Carver, che la declina in maniera molto personale, senza colpi di scena o effetti di svelamento finale, con forte intento realistico. Nella nostra storia letteraria, invece, la si utilizza con l’intento di rendere più oggettiva, impersonale e “scientifica” la narrazione.
Vi sembra di esservi impadroniti della focalizzazione? Io confido di sì, perché con questo bagaglio potremmo vedere più da vicino, la prossima volta, il flusso di coscienza. Vi aspetto.
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