Scrittori da (ri)scoprire – Giuseppe Berto
Giuseppe Berto (Mogliano Veneto, 1914 – Roma, 1978) appartiene a quella parte della sua generazione che, cresciuta nel fascismo, vi ha aderito senza riserve fino alla sua caduta.
Nasce alla vigilia del primo conflitto mondiale da una coppia della piccola borghesia – il padre, maresciallo dei carabinieri, si era congedato per gestire un negozio di cappelli insieme alla moglie – che nonostante le condizioni economiche non molto floride decide di far studiare il primo dei cinque figli in un collegio dei salesiani e poi in un liceo di Treviso. Scoraggiato dal suo scarso impegno, però, il padre decide di non pagargli gli studi universitari e il giovane Giuseppe, già Avanguardista e Giovane Fascista, decide di arruolarsi nell’esercito. Frequenta la facoltà di lettere dell’Università di Padova, ma nel 1935, allo scoppio della guerra d’Etiopia, parte come volontario. Combatte per quattro anni guadagnandosi anche due decorazioni e una ferita: al ritorno in Italia nel 1939, riprende l’Università e l’anno dopo si laurea, aiutato anche dal fatto, come avrebbe raccontato in seguito, di presentarsi agli esami in divisa e con le decorazioni bene in vista.
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Nello stesso anno 1940 Berto pubblica su un quotidiano di Venezia La brigata Feletti, un racconto lungo su episodi vissuti realmente in Africa. Vorrebbe partire volontario allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ma l’esercito non lo chiama e per due anni insegna lettere nelle scuole superiori, finché decide di entrare nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e parte per la Libia al comando di un battaglione di camicie nere.
Dopo la disfatta di El Alamein, Berto viene catturato dagli Alleati in Tunisia e mandato in un campo di prigionia a Hereford, nel Texas, dove dopo l’8 settembre 1943, essendosi rifiutato di cooperare con gli americani, viene sottoposto a privazioni e punizioni di vario genere. Qui però, a contatto con alcuni intellettuali italiani, ritrova il piacere di scrivere e inizia a conoscere gli autori americani fino a quel momento proibiti in Italia, come Steinbeck ed Hemingway. Liberato nel 1946, torna a casa con i manoscritti di diversi racconti e di due romanzi, Le opere di Dio e La perduta gente.
Il secondo piace a Leo Longanesi, che lo pubblica al principio del 1947 cambiandogli il titolo in Il cielo è rosso: è la storia di un gruppo di giovani alle prese con le traversie della guerra e diventa subito un grande successo, vincendo diversi premi. Nel 1950 Claudio Gora ne trae un film e con lui Berto inizia anche a scrivere sceneggiature per il cinema, cosa che farà per tutta la vita.
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Le Opere di Dio (1948) e il successivo Il brigante (1951), anche questo diventato un film diretto da Renato Castellani, non ottengono lo stesso successo. Nel 1955 esce il diario Guerra in camicia nera, ma il mancato successo letterario e la morte del padre gettano Berto in uno stato di nevrosi ansiogena, da cui riesce a liberarsi dopo parecchi anni grazie a una terapia psicoanalitica. In quel periodo scrive soprattutto sceneggiature per il cinema e racconti, pubblicati poi nella raccolta Un po’ di successo (1963).
La svolta nella carriera di Berto avviene nel 1964 con la pubblicazione del romanzo Il male oscuro, narrazione autobiografica degli anni della malattia e del percorso fatto per superarla. Il titolo ha goduto di grande fortuna, entrando presto nel linguaggio corrente per riferirsi a tutti quei disturbi psichici di difficile definizione.
Il romanzo vince a distanza di una settimana uno dall’altro il Premio Viareggio e il Premio Campiello, mentre molti anni dopo Mario Monicelli ne ricaverà un film interpretato da Giancarlo Giannini. Due anni dopo, La cosa buffa continua su questa linea introspettiva.
Negli anni successivi lo scrittore vive lontano dai circoli letterari, evita coinvolgimenti politici e lavora molto per il cinema, collaborando tra l’altro alla sceneggiatura del celebre Anonimo Veneziano (1970) diretto da Enrico Maria Salerno. Ottiene ancora un successo come romanziere con Oh, Serafina! (1974), che vince il Premio Bancarella e diventa un film di Alberto Lattuada, interpretato da Renato Pozzetto e Dalila Di Lazzaro.
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L’ultimo libro di Giuseppe Berto, La gloria (1978), è un lungo monologo in cui Giuda Iscariota racconta in prima persona la propria vicenda umana, giustificando il suo tradimento in quanto frutto della superiore volontà divina. Alla fine del 1978, pochi mesi dopo l’uscita del libro, lo scrittore muore di cancro a Roma.
Autore controverso, polemico, spesso in guerra con il mondo letterario e vittima costante delle proprie nevrosi, Giuseppe Berto incarna tutte le difficoltà del mestiere di scrivere: pochi hanno saputo raccontare così bene le nevrosi contemporanee come possiamo leggere ancora oggi in romanzi come Il male oscuro e La cosa buffa.
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