Schiavitù e libertà: una quaestio infinita dagli antichi ai moderni
"Sono schiavi”. “Sì, però sono uomini”. “Sono schiavi.” “Sì, però sono compagni di alloggio”. “Sono schiavi.” Si, però sono umili amici”. “Sono schiavi”. “Si, però sono compagni di schiavitù”.
Queste parole di Seneca, tratte da “Lettere a Lucilio”, esprimono uno dei rari luoghi della letteratura classica in cui l’uomo antico sembra rendersi conto che lo schiavo è anche un essere umano e riportano, concettualmente, il punto di vista del filosofo stoico, convinto della naturale uguaglianza di tutti gli uomini. L’esistenza della schiavitù, un istituto per noi moderni inconcepibile, ma non del tutto assente anche nell’epoca moderna, è una delle più vistose peculiarità del mondo antico.
Lo schiavo, inferiore per natura, è un oggetto (“oggetto con l’anima”, sostiene Aristotele, “instrumenti genus vocale”,”un tipo di strumento dotato di voce” scrive Varrone) proprietà di un padrone che dispone in tutto e per tutto della sua vita.
Ad esempio, a proposito della tortura degli schiavi in Grecia, risultano vere e proprie testimonianze storiche le orazioni di Antifonte che parla di tale orrendo mezzo di costrizione, attraverso il quale gli schiavi erano costretti a dire la verità.
A Roma, al tempo della repubblica, la tortura degli schiavi era ugualmente consentita; essi, però, potevano venir torturati solo nell’interesse del loro padrone e non contro di lui; gli schiavi che volessero testimoniare contro il loro padrone non venivano ascoltati.
C’è da chiedersi come mai Greci e Romani, giunti a un livello invidiabile di progresso in determinati settori dell’attività umana, recassero poi un profondo segno di barbarie e razzismo nell’idea che un uomo non potesse disporre della propria persona, ma fosse soggetto, come un bene materiale, alla proprietà di un padrone.
La lezione del mondo antico è ancora più drammatica. La schiavitù non privava l’individuo soltanto di libertà giuridica, ovvero non limitava solo la libertà della persona, ma anche quella dell’animo, del pensiero, per non parlare della libertà politica. La fine del mondo antico non ha decretato certo la fine della schiavitù. Basti pensare alle molteplici forme in cui, nella società odierna, si concretizza la condizione di schiavitù, anche se variamente denominata (lavoro minorile, emarginazione, sfruttamento dei più deboli e indifesi, regimi dittatoriali etc.).
La vera schiavitù, oggi, forse è costituita dal limite imposto alla libertà individuale dell’uomo dalle leggi della società tecnocratica, un limite al quale è assai difficile sottrarsi perché condiziona i nostri comportamenti senza che ce ne rendiamo conto. La libertà individuale soggiace, cioè, al cosiddetto conformismo, avvertito come appagamento di un bisogno, come volontà di omologarsi alle scelte del gruppo.
“Le libertà di cui l’uomo è privato nella società tecnocratica non sono le libertà civili o politiche, ma è la libertà umana nel senso più ampio della parola. Ciò che caratterizza la società tecnocratica non è l’uomo schiavo, l’uomo servo della gleba, l’uomo suddito, ma il non-uomo, l’uomo ridotto ad automa, a ingranaggio di una grande macchina di cui non conosce né il funzionamento né il fine” (N. Bobbio).
Neanche la civiltà moderna, dunque, sarebbe in grado di opporre alla “schiavitù degli antichi” una piena libertà dell’individuo.
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