Scacco Matto – “Il nero e l’argento” di Paolo Giordano
Per la terza uscita di Scacco Matto, sfida a colpi di parole che vedrà ogni mese me (Pierfrancesco Matarazzo) e Ivonne Rossomando confrontarsi sulla scacchiera di personaggi e idee su cui si regge un romanzo, abbiamo scelto di “guerreggiare” sul campo narrativo steso da Paolo Giordano nel suo Il nero e l’argento (Einaudi, aprile 2014). Leggendo questo libro scopriamo ancora una volta che le parole nascondono almeno un significato in più di quelli che abbiamo considerato. Pensiamo per esempio a “finale”. Se cerchiamo questo vocabolo sul sito della Treccani, ci ricordiamo intanto che è sia un sostantivo sia un aggettivo e che può essere sia femminile sia maschile. Per “finale” intendiamo sì il risultato ultimo di una serie di eventi, ma “finale” si riferisce anche al “fine”, allo scopo di un’azione o di un piano. Ed è in questa dimensione che si muove il finale della narrazione di Giordano, in un testo che pone al lettore molte più domande che risposte, molti possibili finali, ma mai nessuno davvero definitivo.
Cominciamo dalla storia che l’autore ci propone.
Il nero e l’argento fa scoprire al lettore cosa c’è dentro la testa dell’io narrante: le paure, le insicurezze e le mancate decisioni di un ricercatore di fisica, che racconta il suo rapporto con la morte attraverso quella di una persona a lui particolarmente cara, persona della cui importanza si è reso conto proprio quando non è stata più disponibile per lui e la sua famiglia. La persona in questiona è la signora A., personaggio centrale del romanzo, tuttofare pronta a rassettare, cucinare e consigliare con la stessa leggiadria, asciuttezza e determinazione di un personaggio di Karen Blixen, tanto da meritarsi il soprannome affettuoso di Babette, proprio come uno dei personaggi della scrittrice danese. Sarà la mancanza inattesa della signora A. a far capire all’io narrante, a sua moglie Nora e al loro figlio Emanuele, quanto una famiglia possa aggrapparsi a un unico e non eterno punto di appoggio.
Il primo impatto:
PF: «Il giorno del mio trentacinquesimo compleanno la signora A. ha rinunciato d’un tratto all’ostinazione che la caratterizzava ai miei occhi più di ogni altra qualità e […] ha infine abbandonato il mondo che conosciamo». Ecco le prime righe del romanzo di Paolo Giordano. L’io narrante ci dichiara subito il finale della storia che stiamo per leggere. Capiamo che siamo nella seconda definizione del vocabolo “fine” di cui parlavamo nella nostra introduzione, e che questa morte è così importante che l’io narrante non ha potuto che metterla in cima al mucchietto di aneddoti che costituisce il flusso narrativo de Il nero e l’argento. Allo stesso tempo capiamo fin dalle prime pagine che la morte della signora A. è una porta per entrare nella mente dell’io narrante e nella sua personale idea di sé stesso, della sua famiglia e di quella donna (la signora A.) che è per loro «un riparo, un albero antico dal tronco così largo da non riuscire a circondarlo con tre paia di braccia». Alla mente mi è venuto subito il romanzo di Peter Stamm Agnes (Neri Pozza, 2006), in cui un io narrante, in prima persona come nel romanzo di Giordano e con lo stesso livello di doloroso coinvolgimento, inizia così la sua storia: «Agnes è morta. L’ha uccisa un racconto». Certo, nell’impianto di Stamm i piani narrativi sono un multiplo di quello di Giordano, ma l’idea di scoprire qualcosa in più di sé stessi attraverso la perdita li accomuna.
IR: Mi sono avvicinata all'ultimo romanzo di Paolo Giordano con il desiderio inconfessato di ritrovare la suggestione che avevo provato con la lettura de La solitudine dei numeri primi. Ma mi sono imbattuta in un libro molto diverso, scritto in prima persona, i cui temi dominanti sono l'amore giovanile di una coppia e il timore dell'abbandono. Come corollario troviamo la solitudine e la morte, il tutto descritto con un linguaggio raffinato e fin troppo scarnificato. Già la dedica «alla ragazza che frequento» che appare proprio sotto il titolo del romanzo mi è apparsa fredda e distante. Ho pensato che se fossi stata la “sua ragazza” mi sarei “incavolata”parecchio...
Struttura:
PF: Paolo Giordano usa questo romanzo come base di sperimentazione. Sembra che si stia avvicinando al suo polo nord emotivo, e da un lato voglia iniziare a picchiettarlo per scoprire cosa c’è sotto, dall’altro lo teme e arretra. Le varianti rispetto ai suoi precedenti lavori sono molte, a cominciare dall’uso della prima persona invece della terza. Scelta che l’autore stesso definisce una novità rispetto ai suoi precedenti lavori, di cui ha subito il fascino e il pericolo, ma che lo ha portato a mettersi maggiormente a nudo davanti al lettore. Un altro elemento interessante è la scelta di quella che potremmo definire una “non trama”. A differenza de La solitudine dei numeri primi, non c’è un sistema di eventi, che, seppure sovrapposti a livello temporale, il lettore segue per sapere cosa sta per accadere o è già successo ai protagonisti. Gli eventi più importanti sui personaggi che si muovono nel romanzo li conosciamo fin dall’inizio. Nessuna sorpresa, nessuno svelamento finale. In cambio la storia guadagna in domande e riflessioni che a volte rendono quasi impossibile distinguere l’io narrante, marito di Nora, padre di Emanuele e datore di lavoro della signora A., dall’autore del romanzo. Non siamo ancora vicini al nucleo, ma ci stiamo avvicinando.
IR: Forse quest’avvicinamento al nucleo cui fai riferimento c’è stato, eppure io ho percepito solo una forte compressione dell’emotività della narrazione. La storia delinea la tranquilla vita borghese di Nora (il suo umore ha il colore dell'argento) e di suo marito (il suo umore si tinge di nero, come il catrame) insieme al piccolo Emanuele loro figlio e alla signora A.(soprannominata Babette). Quest’ultima diventa la custode, la “bussola” della casa, per cui, quando lei morirà per un cancro, tutta la famiglia entrerà in crisi. L'amore che Paolo Giordano racconta riguarda la quotidianità di una coppia come tante, nella cui vita non riesco a intuire un fremito, un'emozione, un profumo di sentimenti veri “colorati”.
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Personaggi:
PF: La tua percezione dipende dal fatto che i personaggi del romanzo di Giordano sono in fin dei conti due. L’io narrante (la signora A. che il lettore conosce è una sua creazione) e la morte. Tutti gli altri diventano fondali accoglienti per le discussioni dell’io narrante con sé stesso, per confermare le idee della signora A. (e al contempo dichiararsi da esse molto lontano). La morte è presente e sorvola le scene come l’uccello di paradiso che la signora A. vede un giorno posarsi vicino sentendo fin dall’inizio che è un presagio funesto. La morte pervade il romanzo per lasciare al lettore la possibilità di interrogarsi sulla traccia che intende lasciare sulla terra una volta che sarà scomparso. E qui in molti avranno deglutito, dicendosi che forse non è il caso di comprare questo romanzo, perché la morte c’è, è ovvio, e allora perché pensarci tanto? L’autore è il primo a essere sopraffatto da questa presenza e a non trovare la risposta giusta a questa domanda. Ha un’unica certezza: lasciar perdere farà solo scomparire il ricordo della signora A. e lui non può permetterlo.
IR: Possibile però che Giordano ci proponga solo personalità non comunicanti tra loro? «Insolubili l'una nell'altra», ricoperte di un grigio che toglie al romanzo colore e calore. Ma è soprattutto il racconto dell'evoluzione del rapporto tra Nora e suo marito a non convincermi, eccessivamente in balia della signora A., che sembra decidere e pianificare le loro emozioni. Con il procedere della narrazione l’autore lascia sempre più campo alla signora A. (taccagna, ordinata, ma anche solida e testarda, vero collante tra i due giovani e il piccolo Emanuele). Sarà la sua malattia a far emergere le prime incrinature nel rapporto fra Nora e suo marito, sarà sempre la «stolidità» della signora A. a far nascere una costante provocazione fra marito e moglie, dettata dalla loro mancanza di coraggio.
Stile:
PF: Questo è un libro di domande. Quindi, se non vi piacciono le domande, non lo comprate. Lo stile di Giordano è preda di queste domande e, pur essendo abbastanza limpido e piacevolmente essenziale, dà alla prosa il compito di tradurre tutte le sfumature del pensiero dell’io narrante, e questo può rendere il ritmo meno dinamico di quello de La solitudine dei numeri primi, tanto da far cadere l’autore, in alcuni passaggi giudicanti dell’agire umano, nella trappola del “mal sottile” dei poeti romantici: malinconia diffusa, innestata su un senso di superiorità latente.
IR: Asciutto come un osso di seppia. Questo lo stile narrativo usato dallo scrittore per descrivere i suoi personaggi, tra dolcezze e amarezze, vita e morte, superficialità e incomprensioni. Anche la vecchiaia, la solitudine e la morte sono affrontate dall'autore quasi con indifferenza, come qualcosa di incontrovertibile, che non genera commozione, perché, come dice l'oncologa, «non c'è troppa differenza tra una morte e l'altra». Le emozioni sembrano non rientrare tra le fonti del romanzo o sono molto bene dissimulate.
La conclusione:
PF:Il nero e l’argento è un occhio, un occhio gigante puntato sul suo io narrante (sull’interno del suo io narrante: i pensieri, le paure, le nevrosi, le indecisioni e le incapacità) e al contempo sul lettore, quasi come se Giordano fosse lì, fra le pagine, a osservarci per capire quale sarà la nostra reazione alle parole che ha voluto offrirci, raccontandoci della morte della signora A. Il lettore lo sente quest’occhio, ma non lo teme, a differenza di quello orwelliano, perché sente che la voglia di conoscere di Giordano è pari quasi alla paura di trovare le risposte alle sue domande. È questo il link fra autore e lettore, link che permetterà al lettore di perdonare Giordano quando, forse spinto dall’ansia di porci la prossima domanda, ci propone troppo presto la risposta che lui ha già distillato.
IR: Sono troppe le risposte che ci vuole fornire e tutte, lo ribadisco, perché è una scelta che non ho condiviso e che indebolisce il romanzo, sembrano prive di qualsiasi presa di posizione emotiva. Nemmeno per i ricordi c’è spazio. Nora e suo marito non conservano nulla, neppure lettere o souvenir di viaggio, oro o gioielli, o l'album del loro matrimonio. La stessa signora A., dopo la sua malattia, appare una carcerata in casa, con il cancro come sua unica compagnia. Anche la visita di Emanuele diventa per lei un peso, non una gioia come era stato un tempo, così come i ruoli di malata, scambiati tra Nora e la signora A., diventano occasione di ricordi già sfumati. Solo la morte sembra riuscire, per un attimo, a mutare l'atmosfera di pessimismo e di solitudine dell'essere umano quando, al cimitero, il piccolo Emanuele si sdraierà sulla tomba di colei che era stata per lui la vera nonna e dolcemente, per la prima volta, la chiamerà con il suo vero nome: Anna.
E adesso tocca a voi. Diteci cosa ne pensate.
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