Sandro Pertini: un monito contro la corruzione
Sono trascorsi venticinque anni dalla scomparsa di Sandro Pertini e, nella memoria collettiva, resta il Presidente della Repubblica per eccellenza, quello che più di tutti ha saputo penetrare nel cuore degli italiani, riuscendo a rompere il muro di diffidenza che separa i cittadini dai loro governanti.
Abbiamo provato a indagarne le ragioni insieme a Giancarlo De Cataldo, che ha dedicato al Presidente un commovente ricordo ne Il combattente. Come si diventa Pertini, edito nel 2014 da Rizzoli.
Sandro Pertini: cosa vuol dire confrontarsi con la sua figura a 25 anni dalla scomparsa?
L’idea socialista girava nella mia famiglia fin da quando ero piccolino. Mio papà era stato, dopo la guerra, un giovane militante socialista e batteva le campagne del sud per convincere i contadini a votare Repubblica al referendum istituzionale. Era l’anima del partito socialista nel paese. Di Socialismo sentivo parlare anche dai miei parenti, dagli zii e dai cugini: ne sentivo parlare nel bene e nel male; si isolavano alcune figure mitiche, quella di Nenni e quella di Pertini per esempio; ci si lamentava che, invece, quelli che si vedevano ogni giorno, nella prassi politica, avessero pervertito questo disegno. Insomma il sentimento oscillava tra “Non possiamo fare a meno del Socialismo” e “Il Socialismo è il grande male” e via dicendo. Quando poi andai a vivere a Roma, da giovane studente che collaborava a una radio libera del tempo – si chiamava Radioblu e io avevo 22 anni –, mi feci la passeggiata, seguendo Sandro Pertini dalla Fontana di Trevi fino al Quirinale per la cerimonia dell’insediamento. Fu un momento molto emozionante perché quest’anziano signore – di lui si sapeva che qualche mese prima aveva assistito al funerale del sessantottino Walter Rossi, un ventenne militante di Lotta Continua ucciso nel quartiere Prati – era un uomo spiritoso, uno che alzava il telefono e interveniva; era stato un grande presidente della Camera e un presidente partigiano; insomma, fu un sussulto, uno scatto d’orgoglio della politica e Pertini una figura carismatica. Il carisma “vero” uno se lo costruisce nel corso della vita ma a volte ha delle ragioni inafferrabili. Lui ce l’aveva.
Il fascino, il grande carisma di Pertini che si imprime anche nell’immaginario collettivo. Ho in mente la tragedia di Vermicino. Il presidente era là, a stringersi con tutti gli italiani, commossi per la sorte del piccolo Alfredino. Credo che quell’evento, con quella risonanza emotiva, sarà irripetibile, per un presidente, nella nostra Storia.
C’era una grande partecipazione affettiva e devo dire che se succedesse una cosa di quel tipo, oggi, un buon quarto dei blog e dei social network si scatenerebbero in battute impronunciabili, a sfondo sadico e aggressivo. Non si coglierebbe quell’aspetto di umanità e di tragedia ma solo un elemento di sarcasmo devastante che inflaziona, purtroppo, la rete.
Il combattente. Come si diventa Pertini si apre con uno sguardo sull’incontro tra l’allora Presidente della Camera e i tre “pretori d’assalto” che lo informano del sistema di corruzione in atto nel rapporto tra le Sette Sorelle e i partiti politici. La reazione di Pertini fu indignata: «Non possiamo correre il rischio di perdere la libertà per colpa di chi la usa per rubare». La capacità di indignarsi per la corruzione può rappresentare la cifra più rappresentativa del carattere di Pertini?
Secondo me, la verità di quella frase non è tanto l’indignazione ma il riflettere sulla libertà, concetto sul quale Pertini insisteva molto perché per un uomo ch’è stato 11 anni in prigione e al confino, uno che si è visto privare della libertà dalla dittatura ritiene fondamentale la libertà, in tutte le sue componenti, non solo quella di andare in giro senza veti ma anche di esprimere liberamente le proprie idee, e soprattutto la volontà di essere liberi dal bisogno. Nel pensiero politico e umano di Pertini la corruzione è qualcosa che ti vincola al bisogno, che rende gli uomini schiavi, dunque meno liberi, ed equivale a una articolazione di quella dittatura che lui aveva combattuto per tutta la vita.
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Più volte, nel corso del libro, definisce Pertini un eroe normale e un eroe riluttante. Ci aiuta a comprendere le ragioni e le caratteristiche di questo eroismo?
Pertini è un borghese, un benestante della provincia di Savona, di San Giovanni di Stella per la precisione, che diviene eroe di guerra essendo un pacifista. Socialista fin da ragazzo, non vorrebbe mai andare in guerra. Scoppia però la prima guerra mondiale e deve andare in guerra. La guerra deve farla; la sua responsabilità di sottotenente è quella di portare a casa la pelle del suo plotone. Diventa eroe di guerra, compie delle imprese spericolate: si lancia all’assalto dei nemici sparando con la pesantissima mitragliatrice Fiat. Un po’ per paura, un po’ per l’esaltazione ma soprattutto perché l’uomo sa quel che deve fare istante per istante, adottare la scelta giusta per quel momento specifico. Dopodiché Pertini si limita a difendere i principi della libertà ed è inevitabile che diventi vittima della dittatura. Non dico che diventi un eroe suo malgrado, perché lui ama l’azione, adora mettersi in mostra, gli piace il rischio e non ha paura ma, in un diverso contesto – e lo ha dimostrato da Presidente della Repubblica –, sarebbe stato un uomo più mite e moderato. Il linguaggio nelle sue lettere, specialmente in galera, cambia molto. La galera irrigidisce, inasprisce lo spirito. È questo un concetto sul quale lui ritornava spesso. La prigionia non migliora l’uomo, in senso assoluto, e lui che l’aveva sperimentato ne era consapevole. In seguito si trova ad essere l’uomo giusto al posto giusto, anche a 82 anni, per un cumulo di circostanze, in uno scenario dove la classe politica era screditata. Oggi i ragazzi che assistono alle risse in Parlamento e che hanno un giudizio poco rispettoso della classe politica, non si possono ricordare (per ovvie ragioni) di quell’epoca, ma anche in quel Parlamento, ai tempi dello scandalo Lockheed, del terrorismo e delle dimissioni di Giovanni Leone il termometro di popolarità della classe politica era bassissimo. Pertini diventa un po’ la briscola che la politica toglie dal mazzo di carte in un momento di massacro.
«Per me il Socialismo è soprattutto l’esaltazione della dignità umana, della dignità del singolo» amava dire il Presidente. Quanto, secondo lei, questa fiducia nel Socialismo ha inciso sulle scelte politiche di Pertini?
Pertini era un laico ma il suo atteggiamento nei confronti del Socialismo era quello di un credente. Ci ha creduto fin dall’età di quindici anni ed è morto credendoci, con tutte le scommesse e con tutta la consapevolezza dei limiti, e la mutazione genetica, pure ripetuta, del Socialismo. Pertini è un giovane socialista quando Benito Mussolini, da socialista di estrema sinistra si inventa il fascismo. Partecipa alle scissioni del ’47, del ’68 e del ’72; assiste alla riunificazione e poi alla successiva scissione e infine a Bettino Craxi, col quale aveva un pessimo rapporto. Lo accusava di aver snaturato tutti i principi del Socialismo. In questo andirivieni della Storia, mantenersi incrollabilmente fedeli ai propri principi dev’essere stato un esercizio faticosissimo e spesso doloroso per Pertini. Non ha mai abdicato alle proprie convinzioni.
Nel discorso di insediamento al Quirinale, nel 1978, Pertini pronunciò una frase che appare, ancora oggi, emblematica: «Si svuotino gli arsenali, si colmino i granai». In quale misura, quest’affermazione, questo monito, può essere considerato il condensato della sua biografia?
Esattamente negli stessi termini di cui dicevamo prima a proposito della libertà. La dignità dell’uomo è il valore primario del Socialismo, un Socialismo umanitario così come declinato da Pertini, e prima ancora di un valore economico è un valore di completamento della persona. Nessuna dignità può essere mantenuta se c’è la fame, quella fame che Pertini aveva visto nei suoi contadini, nella gente povera, negli operai che lottavano nel siderurgico, nelle acciaierie, a Savona. Quella immagine che si porta appresso per tutta la vita e che tra gli anni Settanta e Ottanta tocca il culmine quando si comincia a parlare dei Paesi del Terzo mondo. La fame come scenario apocalittico; la fame che induce paura, la paura che induce violenza o paralisi, che rende l’uomo dimezzato, lo priva di una componente fondamentale per vivere che è quella della dignità. Oggi, invece, viviamo in un contesto nel quale le differenze tra i privilegiati che possono godere del benessere materiale e chi vive nella miseria si sono acuite ancora di più. È questo un contesto in cui l’1% della popolazione controlla il 99% della ricchezza. Tutto questo alimenta un profondo senso d’ingiustizia davanti al quale le parole di Pertini sono ancora attuali.
In più passi del libro, lei rifugge l’immagine di Pertini “nonnetto con la pipa”. Ci restituisce quella che lei considera, invece, l’immagine più rappresentativa del Presidente?
Secondo me l’immagine più rappresentativa è nel titolo: Come si diventa Pertini. Se Pertini può permettersi di essere ai nostri occhi il nonnetto che si abbottona la giacca quando l’Italia vince ai Mondiali è perché è stato un partigiano turbolento, un uomo anche violento che si è assunto le sue responsabilità e che non si è mai spostato di una riga dal suo percorso. Ho un’immagine di lui che devo aver già raccontato da qualche parte: “Pertini col braccio al collo perché i fascisti gliel’hanno rotto”. Pertini scappa da Savona e va a Milano, dove conosce Filippo Turati, il capo dei socialisti. Qui collabora a organizzare la sua fuga. Nell’inverno nebbioso milanese si aggira un cospiratore, e guardando dalla piazza verso la mansarda dove Turati era confinato agli arresti domiciliari sa di essere un giovane di trent’anni che si stava giocando tutto, ma tutto per la libertà. È questa l’immagine di Pertini che mi ha sempre affascinato molto.
A un certo punto del libro riporta di quanto ha provato a raccontare di Pertini a suo figlio. Perché ritiene necessario parlarne ai giovani?
La memoria è un valore che va preservato e periodicamente ci vuole un rinfresco della memoria. Quella di Pertini è una personalità che ci orienta verso la luce. Tra i tanti mezzi maestri che noi raccontiamo ai giovani, tra le tante biografie che vediamo in televisione e negli altri media, la figura a suo modo contraddittoria di Pertini, che ci obbliga a fare i conti anche con la violenza e con la lotta, con l’intransigenza, con la sofferenza, pure con il narcisismo e con la capacità declamatoria ma soprattutto con la coerenza, è un esempio che merita di essere ricordato.
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