SAE, l’Europa mai così vicina: le tracce della storia nelle lingue del Vecchio Continente
Si chiama EUROTYP – Typology of Languages in Europe e parte dal presupposto che la storia dell’Europa ha lasciato tracce nella lingua dei suoi Stati; è un progetto che ha portato, infatti, all’individuazione di una decina di tratti – il numero varia a seconda delle posizioni degli esperti – comuni a una particolare area del Vecchio Continente, dove è rintracciabile lo Standard Average European (SAE): un esempio chiaro di come Paesi dalle storie comuni possano arrivare a condividere anche precisi fenomeni linguistici.
Non è un fatto soltanto lessicale, anche perché un criterio del genere, e cioè accomunare due o più lingue esclusivamente sulla base delle parole che ne formano il lessico, sarebbe senz’altro azzardato: gli Stati sono vicini; le barriere, non assenti ma comunque non impossibili da superare (nel corso del tempo, le Alpi e i Pirenei non hanno di certo rappresentato un ostacolo per la circolazione di merci, persone e cultura); la storia, infine, ha fatto il suo corso. In un modo o nell’altro, perciò, è ovvio che sussistano delle somiglianze lessicali. Eppure, il meccanismo di formazione delle parole è un tratto molto importante per i sostenitori del progetto:
«La base del “lessico europeo comune” – si cita da P. Ramat, L'italiano lingua d'Europa. In: A. Sobrero, Introduzione all’italiano contemporaneo, Laterza, 1993 – è dunque costituita fondamentalmente da materiale greco e/o latino [anche per la prefissazione e suffissazione, ndr], vuoi per tradizione ininterrotta attraverso le lingue romanze, vuoi per ripresa dotta di termini classici. […] In questo processo plurisecolare il dato più importante dal punto di vista linguistico è costituito dal fatto che il procedimento del calco fornisce alle varie lingue un mezzo formidabile per costruire una serie aperta (potenzialmente illimitata) di neologismi».
Lo Standard, però, va oltre e la lega linguistica si afferma su più livelli. Il settore centro-occidentale dell’Europa sembra essere caratterizzato, infatti, da un ordine naturale della frase che, sintetizzato con “SVO”, prevede la presenza del soggetto all’inizio e del verbo fra quest’ultimo e il complemento oggetto; l’‘europema’ è sicuramente corretto, ma sono necessarie alcune considerazioni: in inglese, per esempio, la presenza del genitivo sassone rappresenta una chiara eccezione a quanto detto (“Il libro di Maria” è “Maria’s book”, dove il soggetto finisce col trovarsi in posizione finale). Lo stesso genitivo invalida un terzo ‘europema’, e cioè quello secondo il quale in queste lingue esisterebbero soltanto preposizioni e genitivi postnominali: non è così, ovviamente, in casi come “Maria’s book”, dove il genitivo precede il nome.
A parte le eccezioni, comunque, i tratti sembrano accomunare non poche lingue: non si può negare, per esempio, che gran parte degli idiomi utilizzi i verbi “essere” e “avere” come ausiliari; così come non si può negare, però, che sempre l’inglese rappresenta un caso a sé stante: “Sono andato in palestra” si traduce come “I’ve gone to gym”, con la chiara presenza del verbo “avere” in luogo di “essere” (e così per tutti gli altri tempi composti).
La situazione si fa molto più complicata per alcuni ‘europemi’: questo Standard prevede, per esempio, che le lingue siano tutte “pro-drop”, cioè che tollerino l’omissione del pronome personale con funzione di soggetto nella frase dichiarativa; qui le eccezioni sono parecchie: il francese non lo consente, l’inglese neanche, e non si può dire diversamente neanche del tedesco; in queste, infatti, il soggetto deve essere rigorosamente espresso (tutto dipende dalla morfologia: sempre in inglese, sarebbe impensabile omettere il pronome personale, visto che il paradigma verbale è costituito spesso da forme identiche).
E che dire del tratto comune secondo il quale tali lingue avrebbero un sistema di casi molto semplificato? Non è molto coerente: se è vero, per esempio, che l’italiano ne presenta dei residui solo in alcuni settori (per esempio, nell’opposizione pronominale tra “io” soggetto e “me” complemento oggetto), non lo è altrettanto il fatto che il tedesco abbia un sistema di casi semplice.
Come tratto costitutivo del SAE è stato proposto anche il comune accordo fra le forme finite del verbo e il soggetto: anche in questo caso, però, il risultato finale è contraddetto dal fatto che l’‘europema’ è presente anche al di fuori dell’Europa, quindi non può essere considerato tipico dell’area centro-occidentale in questione.
La lista continua: per il SAE i linguisti hanno pensato anche alla presenza di articoli sia definiti sia indefiniti; all’agente che può essere diverso dal soggetto (in “a Marco piacciono i fiori”, per esempio, il soggetto logico è “Marco” e quello grammaticale, “i fiori”); sempre in rapporto alla frase passiva, lo Standard prevede che l’agente possa essere espresso. Al di là del puro elenco, pare evidente che le lingue d’Europa siano sì accomunate da alcuni tratti, ma diverse rispetto a determinate isoglosse, le stesse che avrebbero dovuto essere comuni a tutte. Si può parlare davvero di lega linguistica, allora?
«In effetti – si legge in N. Grandi, Fondamenti di Tipologia Linguistica, Carocci, 2003 – l’estensione complessiva dei possedimenti di Carlo coincide in larga parte con le regioni interessata dalla diffusione dei tratti del SAE. […] La zona di transizione dell’area linguistica abbraccia invece quelle regioni che originariamente non erano controllate da Carlo e che passarono sotto il suo dominio in tempi differenti. La zona relitto, infine, include le regioni collocate ai limiti estremi dell’impero di Carlo e quei paesi che di esso non facevano parte, pur trovandosi sotto una più o meno diretta influenza franca».
Se di lega si deve parlare, quindi, lo si può fare solo precisando che vi è un’area – che faceva parte del cuore del regno di Carlo Magno – in cui gran parte dei tratti si realizzano; essa è costituita da Germania, Olanda, Italia settentrionale e una parte della Francia; un’area, invece, registra i primi forti discostamenti, ed è quella che Grandi definisce “di transizione”, con riferimento al resto dell’Italia, alla Penisola Iberica e a una parte piuttosto consistente del mondo slavo; l’ultima area, infine, registra questi fenomeni marginalmente, tanto che definirla “zona relitto” pare quasi scontato.
Quello dell’EUROTYP è un sogno, in quanto carico non soltanto di entusiasmo “linguistico”, ma anche di valore sociale e culturale: è palese l’intenzione di individuare una sorta di unità europea che renda ancor più compatta l’Europa centro-occidentale. Da una parte, è una lega che funziona, a differenza di alcuni progetti naufragati, come il MEDTYP per le regioni circostanti il Mediterraneo; dall’altra, no. Il presupposto di fondo, comunque, non ne viene contraddetto: la storia dei singoli Stati, i loro rapporti e il peso di questi hanno indubbiamente lasciato traccia nell’evoluzione di ciascun idioma.
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