Romeo l’Ultrà e Giulietta l’Irriducibile. Shakespeare in chiave calcistica
È in scena al Teatro Roma fino al 28 marzo lo spettacolo Romeo l’Ultrà e Giulietta l’Irriducibile. Storia d’amore e tifo con tragedia finale di Gianni Clementi. Entrare in un teatro, lo stesso dove tuo padre nel lontano 1961 andava gratis, dopo essere stato a messa e aver ricevuto in cambio del suo atto di “fede” il pranzo e un timbro che ne attestava l’integrità spirituale, vederlo gremito e immaginare che di storie ne avrebbero da raccontare quelle mura, quelle mura che ancora oggi pullulano di vita, è stata un’emozione. In questo aneddoto inatteso, che mi ha rivelato mio padre emozionato, seduto al mio fianco, ho scorso il continuum, l’immortalità della cultura che non deve sublimarsi e trasferirsi in altre dimensioni per vivere. La cultura che resta a contatto con lo sporco, con il torbido, coi reietti, proprio come i protagonisti di questa originale, divertente e toccante versione di una delle opere massime di cui il teatro può fregiarsi.
Ci vuole coraggio per tentare di trasporre la poesia di un irraggiungibile Shakespeare in dialetto romanesco e ciò che colpisce è la sensazione che a tratti, anche se mutate le vesti, quella magia non sia dissolta. Perché l’amore, il germoglio che esso insidia coraggiosamente tra i vicoli della borgata, quando si sceglie di sostituirlo allo sballo anfetaminico come anestetico al dolore, è dirompente e rende schiavi senza possibilità di replica.
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Un tenero Romeo (Edoardo Frullini), figlio del capo degli Ultrà romanisti “Er Murena” (Marco Prosperini), in un’imboscata nella curva sud dello stadio, per insozzare con un selfie strappato l’onore dei tifosi laziali, si imbatte negli occhi disarmanti di Giulietta (Giulia Fiume), figlia del violento capo degli Irriducibili “Er Catena” (Stefano Ambrogi). L’amore è istantaneo, il sussulto dell’anima che oltrepassa i confini del lecito, spingendo le giovani anime a combattere per il sogno.
Elemento di mezzo nella faida imperitura tra le due fazioni un acrobatico “Er Poeta” (Gianmarco Vettori), amico fraterno di Romeo, che con la delicatezza dell’arte, una sensibilità che spesso viene travisata come fragilità, non si allinea ai dettami di rabbia e violenza del rione, coltivando quella parte autentica di sé che gli altri hanno abbandonato per omologarsi al branco. Quella parte che “Er Cobra” (Federico Le Pera), cugino di Giulietta e uccisore di “Er Poeta”, rivela in un monologo commovente dove le parole raccontano odio, ma il pianto soffocato dietro di esse cela lo strazio, fino a consegnarsi con un bacio sulle labbra alla lama di Romeo.
Tra i ben noti drammi, le risa, i deliri, propri di una storia troppo famosa per aver bisogno di esser raccontata, “Er Frate” (Simone Crisari) ci riporta all’utopia di una Chiesa che sia rifugio e ascolto, un’immagine che troppo spesso resta solo un’idea. Nelle parole del prete che beve, fuma e decora i giovani con tatuaggi in cambio di una confessione, ritroviamo la vera vocazione, quella che spinge a vivere nei bassifondi per cambiarli dal di dentro e non professando a distanza circondato dallo sfarzo e i privilegi. Così il veleno diventa un fungo allucinogeno, e proprio quando l’irrinunciabile tecnologia decide di sorprendere tutti ricordandoci che era e sarebbe possibile vivere senza, l’amicizia brucia l’asfalto fumante nel rapporto intenso di Giulietta e Jessica (Luna Romani), personaggio frizzante e ben modulato.
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Tra i ponteggi di una scenografia minimalista, dove i protagonisti restano in scena anche durante la pausa tra la prima e la seconda parte dello spettacolo, quasi a proclamare “non abbiamo nulla da nascondere, siamo così come ci vedete”, sorge un dubbio che rimbomba nella testa.
Per quanto ancora i figli pagheranno le colpe dei padri, quanto a lungo la fragilità di giovani esseri e il vuoto di valori sui quali fondare l’esistenza spingeranno i nostri figli ad assecondare spirali di odio o ad invischiarsi in dinamiche distruttive solo perché è la strada attesa o perché all’orizzonte nessuna alternativa viene mostrata loro?
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