Romanzo partigiano
[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 4/2013, La forza della memoria]
A ottobre del 2012, nel romanzo d’esordio di un giovane scrittore italiano, categoria quanto mai abusata, si poteva leggere: «Fra dieci, cinquanta o cento anni qualcuno starà a meravigliarsi quando guarderà dentro alle fatiche di questi giorni. Chi domani si soffermerà su quello che oggi fate voi qui, e gli altri in montagna, guarderà alle nostre parole (se ne lasceremo), alle nostre azioni, ai nostri volti, ai nostri occhi, come a un universo ricco e pullulante, e forse concluso, il che è un dono straordinario in un mondo infinito come questo. Quando i nonni racconteranno, i nipoti ascolteranno a bocca aperta, e gli adulti, che dall’altra stanza presteranno orecchio con sufficienza, come chi di quelle vicende sa già tutto, scopriranno che c’è ancora del nuovo, un altro particolare, un’altra voce da seguire».
È un passaggio particolarmente significativo del bellissimo libro di Giacomo Verri, classe 1978, finalista al Premio Calvino 2011, Partigiano Inverno (Nutrimenti, 2012), uno dei romanzi italiani che recentemente ha scelto la Resistenza come protagonista, opera intensa e profonda, fortemente letteraria, con il respiro di un classico. Racconta della Resistenza in Valsesia nel dicembre del 1943, seguendo le vicende di tre personaggi: il partigiano Jacopo, il bambino di dieci anni Umberto e il professore in pensione Italo Trabucco. È l’epica partigiana del mitico Cino Moscatelli, tra i personaggi del romanzo: «ogni suo discorso, ogni sua parola, aveva qualcosa di definitivo. [...] Parlava con la casta concisione che sottrae le storie all’analisi psicologica e le assicura, invece, alla memoria. Forse era così bravo a narrare perché aveva del mondo un’idea certa». Forse, un’idea certa del mondo ce l’ha anche Verri, che si dimostra altrettanto bravo a narrare e assicura alla memoria storie di cui da tempo non si sentiva parlare nella letteratura italiana.
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L’autore dichiara di aver voluto riscrivere un romanzo dallo stesso titolo, opera di un tale Remo Agrivoci, che sarebbe dovuto apparire nella collana dei Gettoni einaudiani nel 1958: «se era difficile scrivere un romanzo ‘neorealista’ nel cinquantotto, doveva esserlo tanto più nel duemilaotto o nove o dieci. Difficile ma allettante e forse utile». E, in effetti, utile lo è «raccontare queste cose adesso che la memoria resistenziale fatica a resistere, in quest’epoca moralmente imbarazzante nella quale ci si imbarazza di fronte all’impegno», dopo un ventennio di retorica anti-antifascista, di propaganda berlusconiana e di egemonia culturale delle destre più reazionarie d’Europa. Verri si chiede «in che maniera parlarne, oggi?», ammettendo una «malattia dell’inesperienza» e la necessità di rifarsi a chi di quella esperienza aveva già scritto. Ma dimostra di aver trovato una strada convincente e letterariamente matura, in cui una lingua complessa, anche aulica, di cui sono stati richiamati tutti gli echi, da Fenoglio e Calvino a Gadda e Fortini, reinventa quella storia e ci consegna un romanzo tra i più significativi degli ultimi anni.
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