Roland Barthes, il grado zero della scrittura
Il 12 novembre di cent’anni fa (era il lontano 1915), nel piccolo paesino di Cherbourg, in Normandia, nasceva Roland Barthes, uno degli intellettuali più influenti della nostra epoca. Definire il pensiero di Barthes è affare complicato, dal momento in cui il suo lavoro critico è stato tanto eterogeneo e dinamico, spaziando tra svariati campi del sapere umanistico, da depistare qualsiasi tentativo di essere ricondotto a una specifica corrente di pensiero o ipotetica scuola “barthiana”. È proprio l’originalità uno dei suoi meriti maggiori, e forse il più evidente filo comune che lega le sue opere, sempre spiazzanti. Emblema di un pensiero libero, non soggetto a restrizioni accademiche né ideologiche, l’intellettuale francese ha lasciato un’eredità critica ancora in grado di dire molto sulla nostra realtà, scuotendo con vigore le strutture profonde che regolano la vita societaria. Critico letterario, linguista, semiologo, teorico del teatro, saggista, Barthes è stato un autore a tutto tondo, capace di muoversi con innata intelligenza oltre le barriere semantiche delle etichette dei generi o discipline.
La passione per la scrittura, per il mestiere di scrivere, è così radicata nella personalità del nostro che Eric Marty, un suo ex allievo nonché amico (autore di Roland Barthes, le metiér d’écrire), dirà: «dal primo giorno che l’ho incontrato fino al giorno della sua morte, mi è sembrato che il solo reale ad appartenergli fosse quello della scrittura».
Il grado zero della scrittura, pubblicato nel 1953, fa di Barthes uno dei critici più in vista della scena intellettuale francese. Secondo l’autore, la scrittura – l’écriture – si differenzia dalla lingua e dallo stile per la sua dimensione formale che costituisce la Letteratura attraverso il compromesso con la Storia. La lingua è il medium d’espressione di cui l’artista si serve, lo stile è la sua esperienza intima che riassume – inconsciamente – le proprie peculiarità di individuo: è la Scrittura che, affondando le radici nel terreno di una data società, assume il connotato di scelta etica. Dopo un lungo excursus attraverso i vari tipi di scritture, da quella trasparente dei classici a quella più torbida del XIX secolo, Barthes arriva al “grado zero” della scrittura di cui Camus, con la scrittura bianca de Lo straniero, figura come capostipite. Il saggio è stato definito dallo stesso Barthes quale possibile introduzione a un’eventuale e più esaustiva storia della scrittura, da lui solamente tracciata a grandi linee.
Miti d’oggi, classico della sociologia della cultura che risale al 1957, è un insieme di letture sui miti della società degli anni ’50, dalla Citroën Deésse al Tour de France, dal viso di Greta Garbo allo striptease al Moulin Rouge, e via dicendo. Barthes analizza il linguaggio della cultura di massa per decifrare le caratteristiche del proprio tempo. È la maniera del comunicare di tale tempo e di tale cultura che produce idoli e crea specifiche mitologie. L’artificialità delle cose infatti, ossia la dimensione culturale, attraverso i media viene spacciata quale naturale, e quindi come un qualcosa che appartiene all’uomo e lo costituisce. La potenza della cultura di massa che rappresenta la società piccolo-borghese sta nella forma, ossia nel modo in cui persone, oggetti, sostanze, istituzioni vengono “parlati”: è quello invero il luogo in cui si fonda e si concretizza il mito. L’esperienza quotidiana di un individuo è quindi caratterizzata da una pioggia mediatica di narrative che rendono il contingente come ovvio e universale.
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Quella che era stata pensata come un serie di appunti per studenti, si è convertita in un’opera capitale per discipline quali la semiotica, lo strutturalismo, e le scienze umane e sociali in generale: si tratta di Elementi di semiologia, scritto nel 1964. Qui l’autore traccia una sintesi della scienza dei segni e riassume gli elementi portanti della linguistica strutturale, spingendo però l’analisi ben oltre; utilizza difatti i principi dello strutturalismo come mezzi per studiare in maniera inedita sistemi di comunicazione alternativi (cibo, arredamento, abbigliamento).
«Perché il Giappone? perché è il paese della scrittura: fra tutti i paesi conosciuti, è in Giappone che ho incontrato la pratica del segno più vicina alle mie convinzioni e ai miei fantasmi, o, se si preferisce, più lontana dai disgusti, irritazioni e rifiuti che suscita in me la semiocrazia occidentale»; è il Barthes de L’impero dei segni, monografia pubblicata nel 1970 in cui raccoglie le impressioni e gli studi maturati durante il suo viaggio in Giappone. Miti e costumi sociali dell’estremo oriente diventano le tessere di un originalissimo mosaico-libro.
Del 1970 è anche S/Z, importante lettura della novella Sarrasine di Honoré de Balzac soprattutto perché si tenta di superare la staticità dello strutturalismo e considerare il testo non più come opera sufficiente a se stessa da smontare, bensì come insieme di possibilità create specialmente da una figura spesso dimenticata dalla critica classica quale quella del lettore. Non è nell’origine che si concentra l’unità testuale, bensì nella sua destinazione, dal momento in cui il lettore si pone come soggetto nei confronti del testo. La prospettiva intesa non come lo sguardo del soggetto, bensì il modo di guardare entro cui il soggetto assume un atteggiamento conoscitivo; in sintesi, non è nella prospettiva dell’autore che si concentra il senso (a questo proposito Barthes scrive nel 1968 il celeberrimo articolo La morte dell’autore), è piuttosto nell’insieme di relazioni che intercorrono tra chi crea e chi, leggendo, partecipa in maniera attiva alla creazione al punto da diventare lo spazio in cui si consolida l’unità testuale.
In Frammenti di un discorso amoroso (1977) è ancora una volta il linguaggio l’oggetto delle attenzioni del critico francese, che in questo capolavoro analizza, in maniera frammentaria, la maniera in cui l’amore – l’innamorato – si esprime. In un saggio dove entrano pezzi di Goethe, Platone, Freud, Lacan, Balzac, Musil, Flaubert, Proust, Gide, ci si muove per vie orizzontali al fine di indagare circa un argomento in cui il linguaggio «è insieme troppo e troppo poco, eccessivo [...] e povero».
Ne La camera chiara, ultimo libro di Roland Barthes (1980), l’autore offre una memorabile quanto oramai canonica critica della fotografia. I ritratti sono per lui «una magia, non un’arte» che opera in quanto mezzo di comunicazione. L’analisi della fotografia si intreccia e prende corpo con alcune riflessioni che ruotano attorno ad una foto della madre, morta da poco. L’intimità del discorso non perde mai senso critico, che anzi rileva il tratto ontologico della fotografia nel suo paradossale essere presenza reale e allo stesso tempo testimone del tempo passato.
Nelle righe che precedono abbiamo cercato di attraversare i punti più salienti del pensiero barthiano, tralasciando alcune opere e preferendone altre. Di una cosa possiamo essere sicuri: a livello teorico, non c’è cosa più sbagliata che riassumere e definire a grandi linee – come abbiamo fatto – un autore come il nostro. Il sugo manzoniano della faccenda riconduce all’idea di una prospettiva del soggetto verso un qualcosa. In una parola, la buona cara intentio auctoris, che proprio Roland Barthes si era preoccupato di togliere una volta per tutte di mezzo per portare il tessuto del senso tra tutti gli insiemi di relazioni che intercorrono tra un testo e chi legge, strappandolo dalle mani di chi scrive. Se gli avessimo chiesto il significato di tutto il suo lavoro, probabilmente ci avrebbe risposto come fece Tolstoj quando, a una signora che gli domandò cosa avesse voluto dire con Guerra e Pace, le disse che per spiegarglielo avrebbe dovuto riscrivere tutto il libro daccapo, parola per parola. «Scrivere significa scuotere il senso del mondo, disporvi un’interrogazione indiretta alla quale lo scrittore, con un’ultima sospensione, si astiene dal rispondere. La risposta è data da chiunque vi rechi la propria libertà: ma poiché questa muta, la risposta del mondo allo scrittore è infinita: non si smette mai di rispondere a ciò che è stato scritto fuori da ogni risposta: i significati passano, la domanda resta» (Saggi Critici). Il modo più valido di omaggiare Roland Barthes a cent’anni dalla sua nascita è portare la nostra libertà di pensiero nei suoi testi e dialogare con tutte le domande che ci ha lasciato, a cui non smetteremo mai di rispondere.
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