Ritratto di scrittrice. “Buongiorno, mezzanotte” di Jean Rhys
Quando si inizia a leggere Buongiorno, mezzanotte di Jean Rhys (Adelphi edizioni, traduzione di M. Silvera) bisogna essere pronti ad affrontare un viaggio in cui passato e presente si sovrappongono e sono il più delle volte interscambiabili: sebbene la felicità crei nel passato delle ferite luminose, sono l’angoscia, la tristezza e il carattere a essere i fattori distintivi di un’anima, quelli destinati – nel corso di una vita – a ripetersi sempre uguali, potenti e inesorabili. Ed è proprio in un’anima che c’immergiamo leggendo questo libro: come dei privilegiati impariamo a conoscere una donna di mezza età che si aggira nella Parigi degli anni Trenta. La donna è instabile, ferita, alcolizzata, alla ricerca arresa ma allo stesso tempo disperata di qualcosa; questa donna soprattutto altro non è che l’alter ego letterario di Jean Rhys (pseudonimo per Ella Gwendolen Rees Williams), una delle figure femminili più interessanti del primo Novecento.
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L’autrice britannica, di origine caraibica, che fu consacrata come figura di rilievo letterario dopo la pubblicazione del suo romanzo Il grande mare dei Sargassi (1966), in cui possiamo ritrovare l’ambiente coloniale della sua infanzia, aveva inizialmente tentato – con scarso successo – la carriera di ballerina. Negli anni Venti si era trasferita nel continente viaggiando e adottando uno stile di vita bohémien: Austria, Olanda, Francia (risiederà per qualche tempo a Parigi). Condusse in quegli anni una vita di povertà e indigenza, sviluppando una dipendenza dall’alcol di cui non si liberò mai, e di cui la sua opera porta evidenti i segni.
«Sento che ora l’alcol mi si sta insinuando dentro, lo sento nelle gambe, nelle braccia, nella testa. Mi offusca.»
L’alcol diviene per lei un appiglio di salvezza e, nel contempo, la consapevolezza di un inganno, lo smascheramento del paradigma esistenziale per cui la felicità è un’illusione e la quiete è una questione raffinata di equilibro. Per la protagonista di Buongiorno, mezzanotte ci sono caffè in cui è meglio non andare, persone che non si devono incontrare, parole che si spera ardentemente non vengano mai dette. Sebbene viva nella povertà e sulle spalle di un’amica che le ha prestato dei soldi per andare a Parigi, non può fare a meno di concedersi dei vizi – comprarsi un cappello, tingersi i capelli biondo cenere – perché sa che altrimenti rischierebbe di non sopravvivere un giorno in più in quella città che sembra schiacciarla da ogni lato, e dove forse un tempo è stata felice. È il divertissement pascaliano: il perenne desiderio dell’uomo di distrarsi e non pensare è per la protagonista amplificato fino a diventare questione di vita o di morte.
C’è poi l’attenzione meticolosa per le stanze in cui soggiorna o ha soggiornato: le stanze del passato che vengono descritte e instancabilmente fissate nella memoria: qual era la luce che vi entrava, lo stato d’animo in cui sono state vissute. C’è in Jean Rhys il desiderio proustiano di spiegare agli altri quanto anche la più piccola inclinazione di tono, il minimo accadimento stonante, siano stati nella sua esistenza difficili, quasi impossibili, da sopportare. Sopravvivere, in questi termini, è eroico.
«Era mia intenzione evitare Théodore, perché potrebbe riconoscermi, perché potrebbe notare quanto sono cambiata, perché potrebbe dirmelo.
Mi siedo in un angolo a disagio.
Lui non è per niente cambiato. Mi guarda da dietro il banco del bar con un mezzo sorriso. Mi ha riconosciuta… è molto improbabile. E anche se fosse? Mica possono ucciderti. O sì, invece?
Oggi devo fare più attenzione del solito, ho lasciato l’armatura a casa.»
L’autrice nelle sue opere e la protagonista in questo libro sono prese da un perenne senso di spaesamento e di non appartenenza che le porta a tentare continuamente la strada dei ricordi. L’autrice racconta nella sua autobiografia incompiuta Smile, please (Sellerio) di aver sofferto il suo trasferimento in Inghilterra e di aver poi cercato tante volte di riappropriarsi nel ricordo della bellezza di quel luogo in cui era nata, senza però riuscirci:
«Ricordavo le stelle, ma non la luna. Era una luna diversa, ma come? Non lo sapevo, ricordavo le ombre degli alberi con più chiarezza degli alberi stessi, il rumore della pioggia ma non il suono della voce di mia madre. Solo vagamente. Ricordavo l’odore della polvere e del caldo, la frescura delle felci ma non il profumo dei fiori. Le montagne, poi, le colline e il mare, non erano lontani migliaia di miglia, ma anni luce.»
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A causa di questa separazione ancestrale è come se la vita diventasse provvisoria: allora tanto vale lasciarsi trasportare come una medusa dalla corrente. La protagonista di Buongiorno, mezzanotte nel corso di queste giornate parigine finirà per intessere legami casuali, passeggeri, quasi mai sinceri, fino ad accettare di uscire con uno strano gigolò con una lunga cicatrice al petto e di iniziare con lui una folle lotta che disegna sulla filigrana del suo passato quello che è per lei l’eterno, inscalfibile paradigma dell’alterità.
Per la prima foto, copyright: Huy Phan.
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