Riscoprire Guido Piovene
In pochi si ricordano di Guido Piovene (1907-1974), eppure lo scrittore vicentino è stato protagonista della scena letteraria per lungo tempo: dagli esordi su riviste del calibro di «Solaria» e «Campo di Marte» alla frequentazione del «Bar delle Giubbe Rosse» a Firenze fino alla vittoria del Premio Strega nel 1970 con Le stelle fredde.
Suo mentore è stato Giuseppe Antonio Borgese, critico letterario e scrittore anch’egli (la sua opera più nota è il romanzo con protagonista l’inetto Rubè), difensore di altri talenti incompresi, come, ad esempio, Federigo Tozzi.
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Piovene ha esordito nel 1931 con la raccolta di racconti La vedova allegra, dedicato proprio al suo maestro, al quale era così affezionato da prendersi “due bastonature” per difenderlo da un’aggressione fascista: «A G.A. Borgese dedico questo mio primo, poverissimo libro […]». I sei racconti sono incentrati sull’egoismo e la solitudine dei personaggi, che Piovene delinea con destrezza. Quell’amara solitudine la conosceva bene: gli derivava dall’essere figlio unico di due genitori freddi e anaffettivi, il conte Francesco Piovene e Stefania di Valmarana, con i quali faticò a costruire un rapporto di reale affetto. La sua infanzia, infatti, fu serena solo grazie alla nutrice Pia, al nonno Guido e al maestro elementare Meneguzzo.
In parallelo alla scrittura inizia la sua attività di giornalista (che dirà essere per lui «fondamentale») come corrispondente per il «Corriere della Sera» nel supplemento culturale “La Lettura”, occupandosi di letteratura ma anche di cinema e teatro (in seguito sarà corrispondente per la cronaca francese); per «Mercurio», rivista fondata da Alba de Céspedes e anche per il quotidiano «Il Tempo».
Altra opera importante di Piovene è il romanzo epistolare Lettere di una novizia (1941), che gli regala il primo successo. Nel romanzo, come avverte lo stesso autore nella prefazione, i personaggi scelgono di raccontare quello che vogliono, offrendo ognuno la sua versione dei fatti. Sono, cioè, pieni di “malafede”, che non è altro che “l’arte di non conoscersi”. La giovane Rita è intenzionata a prendere i voti con l’appoggio della madre, troppo egoista e presa dai suoi tormenti d’amore (che Piovene pare stigmatizzare come una malattia vera e propria, forse per via della sua sofferenza dopo il primo matrimonio con Marise Ferro) per prendersi cura di lei. Lettera dopo lettera, però, la vicenda sembra assumere una piega diversa: alcuni personaggi raccontano che la ragazza sia stata costretta a diventare monaca, che detesti la madre e che sia innamorata di un ragazzo, Giuliano. Il lettore impara a dubitare di quello che legge, non sa dove risieda la verità. È un romanzo pirandelliano, che ci fa disprezzare l’ipocrisia e ci fa desiderare di strappare il velo che, come ci insegna uno dei personaggi pirandelliani più convincenti, Lamberto Laudisi, protagonista del Così è (se vi pare), la ricopre.
Il Veneto spesso fa da sfondo alla narrazione di Piovene: i laghi, le ville e i colli sembrano dipinti sulle pagine, come faceva Antonio Fogazzaro, suo modello e conterraneo più famoso.
Ma il capolavoro di Piovene è l’opera con la quale ha raggiunto la fama e il già citato Premio Strega, sbaragliando un autore come Carlo Emilio Gadda (il quale concorreva con La meccanica). Proprio Gadda, tra l’altro, era stato tra i professori del liceo classico Parini, che Piovene aveva frequentato dopo il trasferimento a Milano. Non è facile cercare di etichettare Le stelle fredde: è un romanzo, certo, ma sfugge a qualsiasi tentativo di definizione. Intanto, è opportuno analizzare il titolo, che allude ad astri lontani che non danno luce, freddi appunto. Già all’inizio del romanzo c’è una chiara distinzione tra caldo (vita) e freddo (morte). Ma si può essere freddi pur continuando a vivere, come il protagonista (del quale non conosciamo mai il nome) che si limita a trascinare la sua esistenza da quando la sua donna lo ha lasciato. Ne parla al passato, ma si rifiuta di dire esplicitamente che lo ha abbandonato: come sosteneva Manzoni, “dire una cosa la fa essere”. La vicenda tocca il soprannaturale quando l’uomo si imbatte in Fëdor Dostoevskij, sfuggito dall’aldilà attraverso il maestoso albero di ciliegio che il padre del protagonista aveva fatto abbattere. Piovene diventa quindi un “piccolo padreterno” e si inventa un limbo buio e freddo, del quale lo scrittore fa una minuziosa descrizione. Ma quando apprende che il mondo è rimasto lo stesso che aveva lasciato e che l’egoismo degli uomini ha toccato il fondo, preferisce ritornare da dove era venuto.
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Guido Piovene è uno scrittore difficile: la sua intera prosa è come una piovra che attira e intrappola il lettore, che rimane invischiato nei suoi tentacoli. Ma, parafrasando qualcuno, affondare nel suo mare può essere dolce.
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