“Riot”: la violenza è un gioco?
Realizzare un videogioco che parli di proteste e rivolte: questa è l’idea che, circa sei mesi fa, è venuta a Leonard Menchiari, regista, animatore, esperto di visual effects.
Menchiari ha deciso di dare avvio al progetto Riot avendo visto le proteste dei NO TAV, da un lato, e le vicende che abbiamo ormai imparato a chiamare “Primavera Araba”, dall’altro.
Stando alle immagini e al video ufficiale rilasciati, Riot, che sarà disponibile per Pc, Mac, iOS, Android e OUYA, ci metterà di fronte alla possibilità di scegliere se stare dalla parte dei manifestanti, o da quella delle forze dell’ordine, in numerosi scenari diversi e con precise missioni da portare a termine.
Nel team di sviluppo anche il designer Mattia Traverso, il quale ha dichiarato che l’obiettivo principale dell’opera (perché non chiamarla così?) è permettere al giocatore di “capire” cosa significa stare da una parte o dall’altra. Un “documentario interattivo” nelle intenzioni degli autori; ma, ci chiediamo, è possibile narrare la dialettica della protesta? La risposta migliore, immaginiamo, dovrebbe essere: sì e no.
Sì, perché se c’è un mezzo artistico che possa rendere conto di certi fatti, da un punto di vista “immersivo”, quello è proprio il videogioco, al pari, se non meglio, del cinema.
No, perché si rischia di appiattire i concetti, i diritti, le rivendicazioni, sull’azione, rischiando in questo modo di banalizzare notevolmente.
Ad ogni modo, qualcosa di veramente importante c’è: in un momento storico in cui si parla di realtà aumentata, videogiochi sociali, web semantico, le forme del “racconto” conoscono nuove necessità, e dunque si mescolano, diventano ibride, crossmediali.
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