Riccardo Bacchelli, trent'anni dopo
La narrazione fluviale di Riccardo Bacchelli andrebbe letta con grande costanza e regolarità, ad intervalli brevi, giorno per giorno, poche pagine quotidianamente, per cogliere appieno il significato del fluire lento del fiume bacchelliano e farsi trascinare da una prosa che, negli ultimi anni, si è detta, a torto, macchinosa, eccessivamente ornata, dal citazionismo esasperato. In una produzione sterminata, oggi ignorata dal mondo editoriale nel quale persistono il solo Mulino del Po e poco altro, andrebbero tuttavia sottolineate con maggior insistenza poliedricità e versatilità di un autore dimenticato, di cui si ricordano solo un cognome, una legge, peraltro di recente variamente contestata.
Le accuse di superbia intellettuale e veemenza scritturale cadono di fronte alla materia narrata, fortemente popolaresca, da Bacchelli nel suo romanzo, o epica romanzesca, più noto e citato, Il mulino del Po appunto, che nell'Italia del boom economico catalizzò milioni di spettatori dinnanzi al televisore per la trasposizione diretta da Sandro Bolchi. Il compatimento, la vicinanza che Bacchelli avverte nei confronti della gente molinara della Guarda ferrarese è frutto di un sentimento di benevolenza verso un «una fetta di mondo […] cioè la piana ferrarese, evocata come in un lampo e pennellata a rapidi tratti fin dall'inizio del primo volume»[1]. Ed anche per questo il Bacchelli, poggiata la penna al tavolo dopo la fatica lunga tre anni della narrazione molinaresca, avverte il distacco da un'ultima reminiscenza di una tradizione popolare che andava scomparendo:
La storia dei mugnai è finita, non aspetta che d'esser conclusa. Chi l'ha narrata, sente d'un tratto il vuoto che questa parola gli reca nell'animo, quasi lo aggrevi d'un tratto di tutto il tempo in cui gli fu dato di stare all'opera come se il tempo non passasse. […] Una famiglia, una gente, una terra, non li inventai, li invenni; e perciò vivono nella pagina labile, ma diversamente da come le cose sono labili; e se la vicenda loro conobbi e vi credo più che cogli occhi e d'udito, non mi appartiene più.[2]
Nella grande epopea fluviale pubblicata in trilogia da Bacchelli tra il 1938 e il 1940 sulla rivista «Nuova Antologia» protagonista è la famiglia Scacerni, per cent'anni mugnai lungo la riva ferrarese del Po, nati «in una terra dove tutto, e la terra stessa, e il bene e il male, dal fiume era dato e ritolto, sì che fiume e fortuna v'erano una cosa sola»[3]. Bacchelli è cosciente dell'itinerario angoscioso attraversato dai suoi protagonisti, sa cioè «che il Po un giorno, men di cent'anni lontano, non avrebbe più avuto mulini»[4]. A rendere ancora più viva e tangibile la narrazione vi è:
Un irto contributo di lessico tecnicistico, notevolmente intrecciato o fuso col parlar locale e dialettale. […] Dal proverbio, dalla sentenza a tutta la fascia della rimeria e del canto popolare, ove spesso un nucleo didascalico e moraleggiante spunta nell'abbandono sentimentale, nell'intonazione dolorosa, nell'inclinazione beffarda e giocosa.[5]
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L'approdo al romanzo storico permette all'autore bolognese di narrare in funzione di una religiosità espressa con sincerità, capace di arricchirsi di una moltitudine di tematiche, attingendo, quando possibile, dal Manzoni in primis, da Dante, da Ariosto, da Leopardi:
La certezza che il mistero abita nel cuore dell'uomo, nella sua vita e nella storia, conferisce un'impronta di religiosità autentica all'arte narrativa e drammaturgica di Bacchelli. Pur non dismettendo mai il suo abito mentale, educato alla lezione dello storicismo, Bacchelli fa spazio alla dimensione del soprannaturale.[6]
L'opera del Bacchelli non s'arresta tuttavia al Mulino, ma prosegue fino alla morte, ormai trent'anni fa, con grande impegno intellettuale e con l'abbandono, parziale, della prosa ampia e solenne di cui si è detto sopra. È il secondo tempo della carriera letteraria di Riccardo Bacchelli, successiva allo sceneggiato televisivo e contrassegnata da un marcato disinteresse della critica:
Si è ben parlato a questo proposito di una modernità realistica cui lo scrittore tenderebbe, ma i risultati non ci sembrano decisivi o almeno al livello de Il mulino del Po, anche se si approfondiscono ora le suggestioni letterarie, […] le istanze di una religiosità vissuta con ben più attenzione, certa sensualità acre e corposa, certo gusto robustamente colorito. […] I suoi protagonisti sono ormai soltanto e sempre dei vinti.[7]
In questo secondo periodo di (s)fortuna critica bacchelliana s'è imposta «l'immagine vulgata di Bacchelli narratore, […] quella del costruttore di amplissime e sempre un poco macchinose strutture romanzesche, […] dalle difficoltà di strutturazione del romanzo»,[8] a svantaggio, tra l'altro, del grande interesse critico nei confronti del predecessore lombardo manzoniano. Il centro narrativo del Mulino del Po andrebbe letto in chiave comparatistica con quanto il Bacchelli seppe analizzare del Manzoni, per mettere in luce il narrare bacchelliano meno chiassoso e sproporzionato, dal vasto respiro narrativo manzoniano.
[1] C. Masotti, Il mondo religioso del «Mulino del Po», inDai solariani agli ermetici. Studi sulla letteratura degli anni Venti e Trenta, a cura di F. Mattesini, Milano, Vita e Pensiero, 1989, p. 317.
[2] R. Bacchelli, Il mulino del Po, Milano, Mondadori, 2013, p. 1128.
[3] Ivi, p. 584.
[4] Ivi, p. 352.
[5] M. Saccenti, «Storia, o vuoi poema», in Riccardo Bacchelli, Milano, Mursia, 1973, pp. 216-219.
[6] P. F. Quaglieni, Introduzione, in G. Ramella, La religiosità di Riccardo Bacchelli, Torino, Centro Pannunzio, 2009, p. 6.
[7] E. Caccia, Riccardo Bacchelli, in Dizionario critico della Letteratura Italiana, vol. I, Torino, Utet, 1986, p. 164.
[8] G. Bárberi Squarotti, Bacchelli bizzarro e satirico, in L'orologio d'Italia. Carlo Levi ed altri racconti, Ragusa, Libroitaliano, 2001, p. 48.
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