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“Rhapsody in June”, sviluppo di un documentario

“Rhapsody in June”, sviluppo di un documentarioEsistono vari premi e Festival in Europa che aiutano l'incontro tra autore e produttore, che premiano un film documentario la cui scrittura (trattamento) e il cui stile registico (teaser) sono ancora nel pieno dello sviluppo. In questi momenti la creatività incontra un suo potenziale mercato.

Quest'anno l'Associazione Documentaristi Italiani ha istituito il Doc/it Women Award, che premia un progetto artistico al femminile, infatti è nato con la finalità di favorire la parità di genere nel mondo della produzione cinematografica.

Al suo debutto il Doc/it Women Award ha premiato il progetto per documentario Rhapsody in June delle registe e produttrici Barbara Andriano e Guendalina Di Marco in occasione delle Giornate degli Autori durante il Festival del Cinema di Venezia.

Rhapsody in June è al femminile anche nel soggetto dato che narra la storia di una donna: Yadana Nat May.

Chiediamo a Barbara Andriano:

 

Chi è Yadana Nat May?

È l'ultima principessa della Birmania. È conosciuta con tre differenti nomi che formano tre storie di una stessa personalità: Yadana Nat May è il suo nome regale datole dal nonno e che significa “La dea dei nove gioielli”, June Rose Bellamy le fu dato dal padre non nobile e di origine australiana, mentre Maria Lucia Postiglione le viene dal suo matrimonio con un malariologo italiano, Mario Postiglione. Con quest'ultimo June visse prima nel sud-est asiatico e poi in Italia, dove però si innamorò di un mossiere del palio di Siena e lasciò la famiglia che aveva creato con Postiglione. Pochi anni dopo, alla morte del mossiere, June entrò nel mondo della moda e della pittura.

Nel 1978, all'età di 46 anni, June tornò in Birmania per sposare il feroce dittatore Ne Win.

Pochi mesi dopo rientrò in Italia come rifugiata. L'ultima fase della sua vita è una fiaba al contrario: la principessa che diventa cuoca, infatti oggi è insegnante di cucina orientale in Toscana.

Rhapsody in June vuole raccontare il suo smodato amore per la libertà e per l'avventura che sono stati più grandi della sua morale.

 

Com'è nata l'idea di questo documentario?

Per caso, un giorno in un agriturismo in Toscana Guendalina Di Marco e io abbiamo conosciuto June Rose Bellamy che preparava una cena birmana e a ogni portata raccontava una storia intrisa di spiritualità e di mistero. Eravamo catturate dai suoi racconti che aprivano mondi sconosciuti. Due ospiti dell'agriturismo, che erano appena ritornati da un viaggio in Birmania, la sollecitavano con alcune domande di carattere politico e lei un po' rispondeva e un po' continuava con le storie affascinanti, terribili e crudeli dei re della Birmania.

June Rose Bellamy è una grande affabulatrice e ci ha sedotto al punto che io ho esclamato: «Qui bisogna fare un film!».

Il figlio, Michele Postiglione, ci ha detto: «Non pensate che sia facile fare un film su mia madre. Lei vi parlerà tantissimo, vi affascinerà, ma non supererà il livello di superficialità. È bravissima e non vi farà andare nel profondo... per esempio non dirà una parola sul suo matrimonio con il dittatore Ne Win».

“Rhapsody in June”, sviluppo di un documentario

Quanto il vostro documetario si concentrerà sulla vita di June e quanto sulle tematiche politiche e storiche della Birmania?

Rhapsody in June ha avuto diverse riscritture nel corso del tempo. Come per tutti i documentari è stato necessario capire fino in fondo cosa stavamo raccontando. I film della realtà si sviluppano da soli pian piano che i fatti reali stessi vengono a galla e quindi la sceneggiatura di questo tipo di film cambia continuamente a seconda di quello che si scopre e di cosa si capisce di poter raccontare.

Come autori si viene sedotti o incuriositi o stimolati o spronati da un personaggio, da una situazione o da un contesto che meritano di essere raccontati perché hanno qualcosa di interessante da far sapere ad altri. Questo qualcosa lo si fiuta da subito, ma spesso l’indagine per arrivare al vero racconto del film richiede l’investimento di parecchio tempo e di continue riflessioni.

Nel nostro caso, prima di arrivare a quella che oggi consideriamo la linea narrativa giusta del film, siamo passate attraverso quattro scritture diverse.

L'attuale struttura del documentario è composta da quattro linee narrative con quattro diversi approcci visivi:

a) June oggi. La seguiamo nel suo vivere quotidiano: nelle vie di Firenze, tra i mercati, nei suoi corsi di cucina. Immagini del suo attuale legame riacquistato con il figlio. L'approccio visivo sarà basato solo sui fatti della realtà, quindi prettamente documentaristico.

b) Ricostruzione della storia della Birmania realizzata con delle animazioni sintetiche e ironiche.

c) La storia della vita di June raccontata attraverso interviste, materiale d'archivio e ricostruzioni filmiche di suggestione, ma non con ricostruzioni stile docu-fiction.

d) Il suo approccio alla vita, che emerge comunque dal racconto del suo vissuto, narrato in modo intimo dal suo voice over su immagini fortemente simboliche: labirinto, confessionale, accanto a un fiume che scorre, etc.

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Per raccontare la storia di June avrete dovuto studiarla come un personaggio che ha un suo arco di sviluppo, no?

Sì, ma ci abbiamo messo tempo per capirla. All'inizio abbiamo visto June stessa come un personaggio a tutto tondo: la sua capacità di affrontare la vita sul momento, di saper cogliere con energia e passione qualunque occasione le si presentasse, di non aver paura di nulla.

In realtà nel corso del tempo, andando avanti a fare interviste, ad approfondire la sua conoscenza, abbiamo capito che quello che noi vedevamo era l'aspetto superficiale, pubblico che June era abituata a mostrare ma non riuscivamo a scendere nel profondo.

 

Nel progetto avete scritto che c'è stato qualcosa di catartico nella ricerca, nella scrittura e nella preparazione delle riprese…

Sì, non solo per me e Guendalina, June stessa ha fatto un percorso catartico. L'abbiamo portata a riflettere sul suo passato, ad approfondire alcuni momenti della sua vita che, sebbene vissuti, non aveva forse analizzato. Abbiamo approfondito la conoscenza e siamo riuscite a superare quel muro che lei teneva alzato per tutelare sé stessa e le proprie scelte.

June ha accettato di prendere in considerazione e discutere i momenti difficili e contestabili della sua vita: sposare un dittatore, mollare la famiglia e andarsene per i fatti propri, mettere i figli in collegio e fregarsene di tutto e così via.

 

Quindi c'è stato un climax nella scrittura e nella realtà?

Sì, sono accadute due cose che hanno messo June in discussione e che hanno rotto la sua caparbietà: una esterna alla lavorazione del documentario e un'altra interna.

La prima è legata al fatto che June è arrivata a un punto della sua vita dove un sistema di facile comunicazione, l'email, Facebook, Twitter, l'hanno messa alla prova.

Molti anni fa quando si rifugiò in Italia dopo aver lasciato il dittatore Ne Win fu intervistata e partecipò a trasmissioni televisive dove June riusciva a mantenere la sua posizione, a dire frasi di circostanza e la vera relazione con Ne Win restò un tabù.

In questi ultimi anni June si è scontrata con persone che hanno costruito falsi profili su Facebook o che le hanno inviato email dove l'accusavano anche di cose che non aveva fatto. Non ha mai replicato a questi attacchi direttamente ma si è trovata in difficoltà.

La seconda circostanza è legata proprio al documentario ed è quella che maggiormente ha deciso lo sblocco della sua caparbietà. Dopo un'ennesima intervista dove June continuava a dire ma non dire, siamo state prese dallo sconforto, non vedevamo una via d'uscita e quindi abbiamo pensato di lasciar perdere il progetto. Dopo quel momento c'è stato un cambio di rotta, lei deve aver deciso che valeva la pena, che eravamo sufficientemente critiche e meritavamo la sua fiducia. Anzi con quell'episodio ha compreso che potevamo essere noi, con il nostro documentario, le persone a cui affidare la sua visione dei fatti per replicare a tutte le aggressioni che le venivano dalla rete.

Chiaramente Rhapsody in June non analizzerà solo la sua visione dei fatti ma anche il contraddittorio attraverso testimonianze di altre persone, di storici e giornalisti.

“Rhapsody in June”, sviluppo di un documentario

Qual è stato e qual è lo scambio creativo tra lei e la sua collega?

Io sono più appassionata della mitologia, della storia, di quello che June racconta sul passato della Birmania, mentre Guendalina Di Marco è molto più legata al personaggio e alle sue vicende di vita dal punto di vista emotivo.

Ci siamo spesso scontrate su come sviluppare questo lavoro, perché per me apriva delle finestre su un Paese sconosciuto: Myanmar o Birmania. In Occidente si ha qualche notizia sulla sua dittatura trentennale e sull'attuale movimento democratico della Lega Nazionale per la Democrazia fondata dal Premio Nobel Aung San Suu Kyi.

Guendalina ha sempre visto Rhapsody in June come un lavoro su una donna, sulle sue evoluzioni personali e interiori. Sul suo rapporto con la vita, con le sue capacità di vivere senza porsi problemi – che non è un elogio – ma tutti noi vorremmo vivere secondo quelle che sono le nostre passioni, però siamo vincolati, anche giustamente, da un sistema, da dei valori universali con i quali bisogna fare i conti.

Il desiderio di libertà di June è andato oltre il rispetto dei valori morali.

Il suo matrimonio con il dittatore è stata sì una scelta di vita al fine di fare qualcosa per il suo Paese, ma è stata anche un’autoaffermazione personale: una voglia di rientrare nel proprio Paese da First Lady dal momento che ne era uscita come principessa.

 

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Era il desiderio di andare a recuperare il suo ruolo all'interno di un Paese che considera suo. Una volta June ha detto: «Io non sono della Birmania, la Birmania è mia». Voleva dire che fa parte di lei, ma il suo subconscio precisava: «è mia».

È stata principessa per poco tempo. È figlia di una famiglia reale, ma i reali non ci sono da cent'anni in Birmania. Hanno avuto sotto gli inglesi un certo tipo di rispetto, di considerazione, ma fondamentalmente in un palazzo reale June non c'è mai vissuta perché gli inglesi avevano già spazzato via quello che era il passato della Birmania di un tempo. Però a June quel mondo è rimasto dentro, come si vede dal suo modo di porsi, di atteggiarsi, è molto elegante, è molto nobile e allo stesso tempo controlla le situazioni, quello che succede e come succede.

 

Quale è stato il cammino di Rhapsody in June dopo Venezia?

Dopo Venezia è stato presentato in occasione dell'Italian Doc Screenings di Palermo, di Visioni dal Mondo di Milano e di Medimed a Sitges (Barcellona). Il pubblico ci ha dato molti feedback e abbiamo capito che il progetto piace e suscita interesse.

In quanto al lavoro mio e di Guendalina Di Marco sappiamo che quello che abbiamo girato finora è principalmente il racconto della vita di Yadana Nat May fatto da lei o da altri.

Ora vogliamo entrare nell'intimo, lavorando anche sulla rappresentazione simbolica del modus vivendi di June Rose Bellamy, vogliamo penetrare il suo: Pochi veramente vivono il momento. Certo il momento è di passaggio, ma va vissuto.

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