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Resoconto di un orrore: “Paradiso” di Eimuntas Nekrosius

Eimuntas Nekrosius, Paradiso, Teatro Olimpico, Vicenza21- 25 settembre 2012. Al teatro Olimpico di Vicenza è andato in scena, in prima mondiale, “Paradiso” – dal Paradiso di Dante Alighieri –, della compagnia teatrale Meno Fortas di Vilnius. La regia è di Eimuntas Nekrosius, al quale, sempre nel 2012, è stata affidata la Direzione Artistica del 65° Ciclo di Spettacoli classici.

Certo, è passato qualche mese prima che ne scrivessi, per lasciar sedimentare l’opinione iniziale su quello spettacolo, magari in seguito a una riflessione più approfondita e distaccata. Devo, però, confermare l’idea originaria: quello spettacolo è stato un vero orrore.
Forse, si tratta di un atteggiamento snob che sta alla base del mio modo di pormi come lettore e spettatore, ma credo che ognuno debba occuparsi di ciò che conosce e che è nelle sue corde. In particolare, nonostante il grande fascino che notoriamente esercita sui suoi lettori, è poco opportuno, soprattutto negli ultimi tempi, affrontare il testo dantesco senza i necessari prerequisiti linguistici, culturali e filologici. Si tratta, infatti, di un’opera la cui complessità non è mai stata messa in discussione, su cui è facile dire castronerie e che può portare a facili sviamenti, perché è di tale ampiezza che, volendo, ci si può trovare tutto e il contrario di tutto. Ecco, quindi, la Commedia come guida per la ricerca del Santo Graal, Francesca da Rimini che innalza una preghiera a Dio e altre sciocchezze simili, che possono esercitare  un certo fascino sui lettori occasionali, ma che appaiono raccapriccianti per chi il testo di Dante l’ha frequentato e lo frequenta con assiduità e passione.

Sia chiaro: ognuno è libero di dire ed esprimere ciò che vuole. Ma non è libero di imporre un’idea sbagliata. A teatro, mi è già capitato di assistere a rappresentazioni con ambientazioni discutibili, che possono magari far riflettere alcuni e indisporre altri: è il caso, ad esempio, dei Sette a Tebe ambientati in uno spazio simile alla Germania Nazista. È un modo di far rivivere il testo, di sperimentare sfumature magari forzate, ma rimanendo all’interno di una tradizione ermeneutica.
A questo primo aspetto, che definirei di rispetto del padre Dante, se ne aggiunge un secondo: il rispetto per il teatro Olimpico, patrimonio dell’umanità nato dal genio di Palladio, che ha mantenuto nel tempo un ruolo di conservazione del teatro tragico classico, come per altro testimoniato dal titolo della sua rassegna teatrale.

Mettere in scena Dante è opera ardua, e si sa: lo sapeva il regista stesso, quando, nella presentazione, scriveva che il Paradiso è «il riflesso della perfezione, e la strada verso la perfezione è tutt’altro che diritta e facile». Allora, dico io, piuttosto di avventurarsi in deliri interpretativi, sarebbe stato opportuno dedicarsi ad altro (mi dicono, fra l’altro, che altri suoi spettacoli siano di una bellezza straordinaria, ma io non vi ho assistito). Non è tollerabile l’accozzaglia di terzine dantesche da lui proposta, con vistosi errori di attribuzione: ad esempio, l’accostamento di passi riferiti a Dio e altri a Beatrice senza soluzione di continuità. Proprio sulla seconda guida, tra l’altro, si sono concentrati gli orrori più macroscopici: l’attrice che la interpretava, Ieva Triskauskaitè, ha ben pensato, non è lecito sapere se per sua iniziativa o per indicazione del regista, di recitare le terzine sulla perfezione dell’universo («Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l'universo a Dio fa somigliante») urlando e piangendo accasciata sul proscenio. Si tratta, qui, non di un’interpretazione forzata, ma di un errore grossolano, di un travisamento del senso. Per non parlare delle scene d’amore, quasi degli amplessi anali, tra Dante seduto su una sedia, con Beatrice tenuta in braccio; le rassicurazioni del poeta alla sua donna, che parlano di un machismo inconcepibile e di una stolidità nel non volere capire ciò che nel Paradiso è più che esplicito. Del tutto assente, come era prevedibile, la figura di Bernardo di Chiaravalle, la cui assenza grida una mancanza totale di conoscenza della struttura logica, teologica e conoscitiva del poema.

È grave, a mio avviso, ciò che è accaduto all’Olimpico; Dante e la sua opera esigono una conoscenza profonda e un rispetto che non è stato loro concesso. Meglio, allora, continuare a guardare ed ascoltare la genialità di Marco Frisina e della sua opera.

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