Resistere dopo la fine: il pensiero e la filosofia postmoderni
Giunti a questo punto, come preannunciato nell'appuntamento precedente della rubrica, ci tocca parlare un po' della filosofia postmoderna, intendendo per "filosofia postmoderna" le linee e i tratti principali che definiscono quella corrente di pensiero che abbiamo chiamato postmodernismo. Un compito arduo e ingrato. Un compito che si presta alle più svariate critiche, soprattutto se si considera che una filosofia che porti l'etichetta di "postmoderna" non esiste ancora nei manuali. Per sfuggire alle più facili tra queste critiche parleremo allora di "Pensiero Postmoderno", chiarendo in primo luogo le caratteristiche generali di quest'ultimo, per passare poi a un breve percorso tra i più importanti "Pensatori Postmoderni" (speriamo che alle virgolette vi sarete ormai abituati).
Iniziamo con il dire che il pensiero postmoderno è legato al concetto di "fine". Siamo ad un momento di svolta, nel momento in cui si passa dall'illusoria sicurezza moderna a qualcos'altro. Qualcos'altro di misterioso e sconosciuto. La fine di cui parliamo è la fine della ricerca dell'Essere, la fine delle verità totalizzanti, la fine del progresso, dell'idea di tempo e storia come processo lineare, la fine del logocentrismo, della ragione come elemento «fondante» del pensiero. Ciascuna di queste fini si porta dietro delle morti e, per un po' di tempo, dei lutti; la morte di Dio, della Metafisica, delle ideologie, della fiducia nelle metanarrazioni. Ma, come sappiamo o crediamo di sapere, una fine segna sempre un nuovo inizio. E a questo punto il senso ultimo di quel «post» di postmoderno dovrebbe essere più chiaro; «post» indica una resistenza. Essere «post» significa essere arrivati alla fine, essere sprofondati dentro le macerie ed essere sopravvissuti, aver retto l'urto.
Il percorso che adesso dobbiamo fare, a ritroso, per tentare di sintonizzarci con questo confronto cinico e disilluso con la fine e il cambiamento parte da Nietzsche e Heidegger, poiché ad essi si riallaccerà tutta la filosofia del Novecento, postmoderna e non. Con i due filosofi tedeschi parliamo già di morte di Dio e di fine della Metafisica e quindi di crisi del pensiero occidentale. Il «folle» che ne La Gaia Scienza di Friedrich Nietzsche proclama la morte di Dio, dichiara in realtà l'illusorietà della morale e della ricerca filosofica. La ricerca del vero che conduce infine alla scoperta insopportabile che nessuna verità esiste. Socrate è stato la causa di ogni illusione; lui più di altri aveva elaborato il primato della ragione e dell'ordine, lasciando che lo spirito apollineo prevalesse su quello dionisiaco. L'etica occidentale, l'idea che il tempo sia un costante procedere verso il meglio sono il frutto di questo peccato originale. Al «superuomo» contemporaneo non resta allora che accettare di vivere in un mondo senza più centro e punti di riferimento stabili e all'interno di questo mondo muoversi a passo di danza, con spirito affermativo, addentrandosi tra le rovine della storia per creare, piuttosto che riscoprire, valori nuovi. Zarathustra inaugura così l'epoca del nichilismo compiuto, non più risentito e tremante, non più «reattivo», ma un nichilismo «attivo» che strappa la maschera ormai sfatta delle vecchie certezze per trovarne e costruirne di nuove.
Ancora oltre si è spinta la filosofia di Martin Heidegger, dalla quale emerge, semplificando vergognosamente il discorso, l'erroneità della Metafisica che, interrogandosi sull'Essere non ha fatto altro che retrocederlo a semplice ente, cioè al livello delle cose. Per Heidegger, che considera appunto Essere e tempo un percorso incompiuto, nessuna ricerca dell'Essere è possibile se non per negazione. La Metafisica retrocede a semplice Fisica, a discorso sugli enti e non sull'essere. Dopo di lui si inizia a parlare quindi di pensiero post-metafisico.
Questo preambolo incompleto e disordinato è comunque indispensabile per aiutarci a capire una parte importante - la più importante per noi che parliamo di Postmoderno - della filosofia del Novecento. Quella filosofia che ha ormai rinunciato alla ricerca di verità totalizzanti e che, dopo aver scoperto l'inceppo nella storia del pensiero occidentale, si è limitata a ripercorrerne i passi per mettere alla luce gli errori e i passaggi forzati. Per i post-strutturalisti francesi, Jacques Derrida e Gilles Deleuze, il mondo non ha alcun senso comprensibile e chiaro, non c'è alcuna prevalenza del sistema sulle singole parti, nessuna via univoca da seguire; i sistemi di pensiero per come sono stati concepiti fino a questo punto poggiano sull'illusione logocentrica che ha posto il linguaggio prima della realtà e il filosofo che prende coscienza di questa fallacia di metodo non può far altro che ripercorrere la storia e la storia del pensiero muovendosi al livello dei singoli eventi, conscio del fatto che non esiste nessun legame prioritario tra il linguaggio e la realtà (Derrida); la realtà è composta da una molteplicità irriducibile di piani e di livelli e non è possibile nessuna riduzione non violenta e non convenzionale di questa molteplicità, non è possibile individuare nessuna univocità nessun percorso unidirezionale di senso: l'unica struttura possibile è la struttura rizomatica in cui ogni punto è collegato a qualunque altro in un infinito rinvio di segni e significati (Deleuze). Per Gianni Vattimo e Richard Rorty lo scopo stesso e la funzione del pensiero vanno ridimensionate; il pensiero deve diventare «pensiero debole», slegato dalla ricerca di verità universali, conscio che nessun contatto è davvero possibile tra realtà e rappresentazione, tra parole e cose (Vattimo); la filosofia deve adattarsi a diventare un «genere di discorso» che, ripercorrendo la propria storia con ironia, può ancora produrre discorsi moralmente edificanti (Rorty).
Non ci resta che concludere questo percorso con Jean-Francois Lyotard che, ne La condizione postmoderna del 1979, ha tentato di fare un'indagine approfondita sulla condizione del sapere contemporaneo. Il filosofo francese, con una straordinaria lucidità e coerenza di metodo, ha illustrato come oggi, in un mondo sempre più tecnologico, liquido e complesso, trovare delle teorie e dei sistemi di sapere universali sia un progetto privo di significato. I sistemi complessi del passato non sono altro che metanarrazioni, discorsi autoreferenziali su se stessi che reggono da soli i propri principi. Einstein, Gödel e Heisenberg ci hanno insegnato che ogni sapere è relativo, configurato all'interno di un sistema assiomatico convenzionale, vero solo finché saranno vere le regole che lo sostengono. Piuttosto che a saperi presuntamente universali la scienza e la filosofia devono indirizzarsi verso saperi e problemi locali; anziché analizzare l'intero quadro, irriducibile e incomprensibile dovrebbero rivolgersi ai singoli frames, ai singoli momenti, sbarazzandosi dei criteri inservibili di vero e falso, giusto e sbagliato, per adottare un più spendibile ed oggettivo criterio di «performatività» (utile/inutile), che possa coinvolgere tutti, in maniera trasparente e democratica, all'interno dei processi di costruzione del sapere stesso.
La condizione postmoderna allora, lo ripetiamo ancora una volta, è propria di chi scopre che non esiste nessun senso e nessuna verità universale che non sia illusoria e convenzionale ed è pronto ad accettare la scoperta senza sofferenza né patimento, ritenendo anzi questo dis-velamento, questa presa di coscienza, come una possibilità di riscatto, possibilità di crescita e perfezionamento. In questo senso la fiducia moderna nel progresso può essere recuperata e riutilizzata, ma solo dopo aver compiuto questa autoanalisi. E in questo senso la filosofia postmoderna può essere interpretata come filosofia positiva e propositiva, degna di dettare il passo allo scoccare del nuovo millennio. Lo stesso Lyotard scrive ne Il Postmoderno spiegato ai bambini che «il postmoderno non è il moderno alla fine, ma allo stato nascente, e questo stato è costante».
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