Rainer Maria Rilke: consigli a un poeta in erba
Nel 1902, l’allora diciannovenne e aspirante poeta Franz Kappus spedì a Rainer Maria Rilke varie lettere insieme ad alcuni lavori, sperando di ottenere un riscontro dal famoso poeta austriaco di origine boema. In maniera quasi inaspettata, alcuni mesi dopo, Kappus ottenne da Rilke una risposta che segnò l’inizio di una fitta corrispondenza che si protrasse per ben cinque anni.
All’incirca dieci anni dopo la scomparsa dello scrittore austriaco, Kappus pubblicò in un volume proprio alcune delle lettere del suo idolo e maestro.
I consigli di Rilke, in una lettera proposta dal sito Letters of Note, testimoniano la grandezza del suo genio letterario.
***
Parigi, 17 Febbraio 1903
La Sua lettera mi è arrivata solo alcuni giorni fa: vorrei ringraziarla per la completa fiducia che traspare dalle Sue parole, posso fare poco altro. Non voglio entrare nel profondo dei Suoi versi perché non ho alcuna intenzione di giudicarli. Nulla può toccare un’opera d’arte così poco come un giudizio critico: si giunge sempre a fraintendimenti, piccoli o grandi che siano. Non tutto è comprensibile e spiegabile attraverso le parole come vorrebbero farci credere: la maggior parte degli avvenimenti, infatti, non può essere descritta, avviene in uno spazio estraneo alle parole e sono proprio le opere d’arte ad essere le più indicibili di tutte. Esse sono esistenze piene di mistero la cui vita perdura a dispetto della nostra che è effimera.
Dopo questi brevi cenni introduttivi, vorrei solo dirle che i Suoi versi non hanno un vero e proprio stile personale: si intuisce, tuttavia, che vi è un accenno di personalità in essi. Mi sembra che questo discorso valga soprattutto per il Suo ultimo componimento La mia anima: c’è qualcosa qui che, attraverso le parole e la melodia della poesia, vorrebbe emergere. E nella stupenda A Leopardi affiora forse una certa affinità con quel grande artista solitario. Tuttavia, i componimenti sono ancora privi di una vera e propria autonomia, compresi l’ultimo e quello dedicato a Leopardi. La lettera che accompagnava i Suoi lavori non dimenticava di evidenziare alcune mancanze che anche io ho percepito leggendo i versi ma a cui, tuttavia, non sono in grado di dare un nome.
Mi ha chiesto se i Suoi versi fossero buoni, lo domanda a me ma si è già rivolto a qualcun altro: li ha inviati a riviste, li ha confrontati con altri componimenti e si è infastidito quando certi editori hanno vanificato i Suoi sforzi. Ora (visto che mi ha autorizzato a darle dei consigli), Le chiedo di smetterla con tutto questo. Lei guarda troppo all’esterno e non dovrebbe farlo. Nessuno può darle un consiglio o fornirle aiuto, nessuno. Cerchi il motivo che la spinge a scrivere, scopra se questo bisogno sta mettendo radici all’interno del Suo cuore, riconosca se morirebbe nel momento in cui le venisse proibito di comporre versi. Ma soprattutto si chieda, nel pieno della notte: devo scrivere? Scavi dentro se stesso per trovare una risposta. E se questa sarà affermativa , se risponderà a questa profonda domanda con un convinto e semplice “sì, devo”, allora costruisca la Sua esistenza attorno a tale necessità. La Sua vita, perfino nell’ora più indifferente e misera, deve essere un segno di questo bisogno e di questa urgenza. Si avvicini alla Natura e, imitando gli antichi, cerchi di dire ciò che vede, prova, ama e perde. Non scriva poesie d’amore, eviti quelle forme che sono troppo semplici e comuni perché, in realtà, sono le più complesse ed è necessaria una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove già esistono, in abbondanza, tradizioni buone e, in parte, addirittura ottime. Proprio per questo motivo, rifugga dai temi generali e cerchi quelli che la vita di tutti i giorni le offre: descriva i Suoi tormenti e i Suoi desideri, i pensieri effimeri e la fede in una qualche bellezza e per farlo si affidi a una sincerità cordiale, pacata e umile e usi, per esprimersi, le cose che la circondano, le immagini dei Suoi sogni e gli oggetti dei Suoi ricordi. Se la vita quotidiana le sembra banale, non la biasimi: biasimi piuttosto se stesso e dica, sempre a se stesso, che allora Lei non è un poeta così abile da evocarne le ricchezze perché, per chi crea, non c’è alcuna povertà e alcun luogo indifferente o misero.
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E se anche Lei fosse in una prigione i cui muri non lasciano arrivare i rumori del mondo ai Suoi sensi, non avrebbe forse la Sua infanzia che è preziosa ed è un tesoro regale, uno scrigno pieno di ricordi a cui attingere? È proprio lì che deve guardare. Provi a far emergere le sensazioni di quel tempo ormai passato: la Sua personalità si rinsalderà, la Sua solitudine diverrà, sì, più grande ma sarà come una casa al crepuscolo che non viene sfiorata dal rumore degli altri. E se da questa prospettiva interna, da questa immersione nel proprio mondo nasceranno dei versi, allora non dovrà chiedere a nessuno se essi siano buoni o meno. Non desidererà nemmeno che le riviste si interessino alle Sue parole: nei versi, Lei troverà il naturale possesso, un frammento e un suono della Sua esistenza. Un opera d’arte è buona se nasce dalla necessità ed è proprio nella natura di questa origine che giace il giudizio, non c’è altro. Egregio Signore, non ho altri consigli da darle se non quello di guardare dentro di sé e di esplorare le profondità da cui scaturisce la Sua vita e a quella fonte troverà la risposta alla domanda se Lei debba creare o meno. Accetti il verdetto, così, senza interpretarlo. Forse, si scoprirà che Lei deve proprio essere un artista: allora prenda il Suo destino sulle spalle, ne porti il peso e la grandezza, senza interrogarsi su quale ricompensa possa arrivare dall’esterno. Chi crea deve essere un mondo per se stesso e deve trovare ogni cosa dentro di sé e nella Natura a cui si è legato.
Forse, però, dopo questa discesa nell’intimo e nella solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta che uno senta di poter vivere senza scrivere e allora non ci deve nemmeno provare). In ogni caso, l’introspezione che le ho chiesto non sarà stata inutile. Da quel momento, infatti, la Sua esistenza troverà comunque la propria direzione che le auguro, più di quanto sia in grado di dire, sia buona, ricca e lunga.
Cos’altro posso dire? Mi sembra che tutto abbia avuto il giusto peso e, dopo quanto le ho scritto, vorrei solo ricordarle di continuare a crescere tranquillo e serio durante il Suo sviluppo. Non può turbarlo con più violenza se non guardando all’esterno e aspettandosi risposte a quesiti che solo i Suoi più intimi sentimenti, nell’ora più inquieta, possono forse placare.
Mi ha fatto piacere trovare, nella Sua lettera, il nome del professor Horacek: per quest’uomo colto e amabile serbo infatti una grande stima e una gratitudine che non teme gli anni. La prego di riferirgli la mia opinione: è molto buono a ricordarsi ancora di me e io lo apprezzo.
Le restituisco i versi che ha desiderato, con molta gentilezza, confidarmi. La ringrazio ancora per la grande e sincera fiducia di cui, attraverso questa risposta sincera e data in buona fede, ho cercato di rendermi più degno di quanto, come estraneo, io non sia.
Suo devotissimo,
Rainer Maria Rilke
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