Racconto della crisi e crisi del racconto. Fra Portogallo e Italia
Articolo pubblicato nella webzine Sul Romanzo n. 6/2013 Racconto della crisi.
Forse anche alle nazioni si applica la catalogazione – imperfetta, ma tutto sommato comoda – per generi letterari: ce ne sono alcune decisamente poetiche, altre prevalentemente narrative, altre saggistiche. L’italiano che veniva a vivere in Portogallo, almeno fino a qualche anno fa, capiva subito di aver lasciato una nazione saggistica in cambio di una più incline a poesia e racconto. Da noi, per esempio, i palinsesti televisivi erano (e sono) pieni di dibattiti, anche fra scalmanati (le nazioni saggistiche non sono necessariamente sagge). Si litiga continuamente sulla politica, in Italia, e lo sappiamo; ma si discute anche la storia di ieri e dell’altrieri, terreno su cui, spesso, sia il cinema sia tanta editoria si addentrano con opere che saranno pure narrative, ma con taglio da inchiesta storico-giornalistica. In Portogallo, la cultura “bassa”, televisiva, era (e, in parte, lo è ancora) piena di telenovelas importate dal Brasile o di produzione autoctona; la cultura “alta”, quella del cinema tra i più impopolari, ma amato dai cinefili di tutto il mondo, vantava film come quelli di Manoel de Oliveira, spesso ispirati a romanzi trasposti sullo schermo attraverso lunghe inquadrature immobili e voci off che leggono quei libri quasi per intero (è il caso di Amore di perdizione, tratto da un romanzo ottocentesco di Camilo Castelo Branco, o Il giorno della disperazione, cronaca degli ultimi giorni di vita proprio di quel prolifico romanziere, che si apre con il falso movimento di un lunghissimo piano-sequenza lirico su una ruota di carrozza).
Venendo alla letteratura, almeno dai tempi di Moravia e Pasolini i romanzieri e/o poeti italiani raramente rinunciano alla possibilità di intervenire sull’attualità, da “corsari”, sui giornali o in Tv; né rinunciano a quello che un narratore come Gianni Celati definiva il “delirio di consapevolezza”, che nel nostro caso si manifesta con una parallela attività saggistica, spesso altrettanto popolare e capace di contaminare la scrittura narrativa stessa. Credo che certi casi letterari italiani degli ultimi decenni – da Calvino a Saviano, passando per Tabucchi e Baricco – pur nelle loro macroscopiche differenze rendano comunque l’idea di ciò che voglio dire.
In Portogallo, al contrario (e la distinzione è per ora meramente di forma, non di merito), sui giornali è ancora in voga l’elzeviro o il pezzo narrativo “puro”, magari diaristico, autobiografico, sempre in prosa levigata e con personaggi reali, ritratti nell’intimità, o fittizi, da ritrovare nei libri pubblicati più tardi da quegli stessi autori. Ricordano un po’ quei “poeti in tempo di prosa” di cui parlava Almeida Garrett (1799-1854), scrittore guerrigliero che praticò tutti i generi alla moda nel suo tempo, ma ha lasciato la sua più viva testimonianza in un libro atipico come Viaggi nella mia terra, che oggi, forse, andrebbe imitato di meno e metabolizzato meglio.
Un’eccezione notevole, fino a pochi anni fa, era Saramago. Veniva dal giornalismo e fino all’ultimo ha coltivato il gusto per la polemica, perfino (lui, ultraottantenne) da blogger. Tuttavia, nelle sue opere letterarie, l’impronta dichiaratamente saggistica di un romanzo come Manuale di pittura e calligrafia, pur restando, si attenuerà negli anni.
Questo lungo preambolo, prima di parlare del racconto della crisi in Portogallo, proprio per dire che, a voler tentare una previsione non facile, una delle cose che la recente crisi portoghese (non solo economica) potrebbe trasformare radicalmente è proprio l’equilibrio all’interno di questo spazio (non solo letterario) appena descritto. Il dibattito della crisi, insomma, non va confuso con la crisi del dibattito. Anzi credo di poter dire, senza esagerare, che in Portogallo non si discuteva tanto da decenni. Per la prima volta, in televisione come al bar, il gran parlare di crisi, anche solo come gesto scaramantico, sembra aver persino soppiantato le chiacchiere sul calcio (almeno fino al prossimo mondiale o al prossimo “scudetto” al Benfica, che trasforma gli umori della capitale e irrora il resto del Paese attraverso vasi sanguigni ultimamente un po’ malconci anch’essi).
Se in Italia il “reality”, da intendersi alla lettera (sebbene la “lettera” del “reale” sia assai discutibile) e non come teatrino dell’uomo della strada barricato in casa e accerchiato dalle telecamere del Grande fratello, aveva fatto irruzione in Tv sulla Rai 3 diretta da un saggista come Angelo Guglielmi – il quale, attraverso l’audiovisivo, provava a decostruire la narrativa tradizionale, continuando così, con altri mezzi, l’opera di demolizione avviata dalle neoavanguardie letterarie in cui aveva militato negli anni Sessanta –, in Portogallo quest’irruzione avviene quando, in prima serata, le televisioni sospendono la normale programmazione per trasmettere la conferenza stampa in cui ministra e sottosegretari delle Finanze presentano la nuova legge di bilancio per il 2014. È un’irruzione dall’alto, come un golpe di palazzo. Ma seguono discussioni fino a tarda notte, valido intrattenimento alternativo alla telenovela da noite.
E per la prima volta anche nella storia del dibattito politico portoghese, che ai tempi della Rivoluzione dei garofani non era certamente blando (divenne proverbiale un faccia a faccia tra il socialista Soares e il comunista Cunhal, in cui si parlava di modelli di sviluppo e di governo, ideologie e giuste distanze fra USA e URSS), la lingua stessa oggi risulta profondamente cambiata. Si parla di spread, rating, swap, troika, bailout, IVA, aliquote, percentuali progressive, rimborsi in “duodecimi”, scadenze sugli interessi, scadenze sul ritorno ai mercati principali e secondari del debito, riscadenzamenti... Scadenza e decadenza generalizzata del tutto. Questa “neolingua” entra con una violenza inedita nei palinsesti televisivi, stravolgendo per esempio i telegiornali, che in Portogallo sono di una durata improponibile per qualunque altra televisione nazionale: contenitori di un’ora e più, che fino a poco tempo fa erano appunto “romanzeschi”, o meglio: bozzettistici, alternando le notizie dal mondo con narrazioni locali ora dalla capitale di un piccolo Stato sempre un po’ dimenticato, ora dalla provincia più remota, dove i paesini si spopolavano già ben prima della crisi conclamata e un vecchietto poteva assurgere agli onori della cronaca per aver riparato il tetto sfondato di una masseria centenaria.
Con opinioni varie e più o meno condivisibili, ovviamente, questi esperti della neolingua e delle scienze economico-sociali, dagli schermi televisivi e dalle pagine dei giornali, approdano in libreria. Ambiscono a raccontare un Paese diverso o forse a raccontare diversamente il Paese di sempre. Ecco allora che l’affermato commentatore televisivo pubblica Il mio programma di governo; il giovane giornalista della carta stampata stampa un libro sulla “casta” portoghese: I privilegiati; l’economista euroscettico ci spiega Perché dobbiamo uscire dall’Euro; il presidente di un’associazione civica per la trasparenza scrive e si chiede: Dalla corruzione alla crisi. Che fare?; mentre un altro giornalista gli fa eco con un’altra domanda: E ora?; e un noto opinionista conclude: Basta! Come a dire che anche gli scaffali delle librerie, con le loro copertine e titoli, raccontano e inscenano un dibattito a distanza che non conosce confini.
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E i romanzieri professionisti? Quelli che, pur giovani, sono già avanti nell’opera di edificazione di un articolato e personale universo poetico-narrativo verranno forse colti di sorpresa da una nazione che, all’improvviso, sembra esigere nuovi strumenti di lettura e di racconto. Probabilmente, in futuro, qualcosa cambierà. Qualcuno ci sta già provando. David Machado, giovane autore con laurea in economia, sembra fare il verso proprio al linguaggio degli economisti con il suo titolo più recente, Tasso medio di felicità; mentre un “portoghese d’America” come Richard Zimler abbandona gli scenari consueti dei suoi gialli storici per calare il plot di The Night Watchman nel Portogallo losco e corrotto del XXI secolo. Intanto, segnali di una contaminazione fra giornalismo e narrativa potrebbero rintracciarsi in autori che si dividono fra i due mestieri, ma li considerano ancora troppo spesso come lavoro e dopolavoro. L’ipotesi va rimandata a un’analisi più lenta.
Naturalmente il grande scrittore non ha bisogno di stare incollato all’attualità; la letteratura ha bisogno di volare più alto. Ma se poi si va troppo in su e non si ha vista d’aquila, si rischia di restare a digiuno. I libri di Saramago col tempo si aprirono a una narratività più distesa in cui l’approccio diretto alla contemporaneità era mediato dalla trasposizione storica, come in Memoriale del convento, o da surreali metafore kafkiane, come in Cecità. Una lezione sempre stimolante, ma oggi ampiamente disattesa. Il rischio opposto è che la crisi diventi un best-seller, buono per insidiare il parabiblismo alla Dan Brown. Intanto, già invade l’ambito del paratesto, quando un premio letterario come il prestigioso Leya (100mila euro destinati a un romanzo inedito sottoposto anonimamente a una giuria di nomi famosi) diventa occasione per narrare, al di là dei contenuti del libro premiato, una storia di crisi a lieto fine. È avvenuto di recente con João Ricardo Pedro, vincitore nel 2011, e con Gabriela Ruivo Trindade, nel 2013, entrambi autori spinti verso gli ozi letterari (narrano le cronache) dal licenziamento e dalla disoccupazione.
E questo è quanto riguarda gli autori più o meno giovani. Ma i giovanissimi? La generazione degli intellettuali di domani? Tempo fa ho seguito una troupe di giornalisti e operatori italiani che a Lisbona realizzava un reportage per un ciclo di documentari dal titolo: A different crisis. Durante le riprese di una manifestazione sindacale di professori, uno degli autori del documentario, Christian Elia, mi ha domandato: «E gli studenti? Non ne vedo». Tempo dopo, ho scoperto che aveva detto pressappoco la stessa cosa Jean-Paul Sartre, nel suo viaggio in Portogallo del ‘75, all’apice della rivoluzione. Gli studenti erano assenti o apatici. Anche nei mesi scorsi, mentre il governo annunciava in Tv l’ennesima finanziaria da macelleria sociale e i giornali riportavano il calo drammatico di iscrizioni all’università, per mancanza di soldi o di fiducia delle famiglie portoghesi, gli studenti più appariscenti erano ancora una volta quelli che – le facce variopinte, le gole incravattate e i corpi avvolti in spessi mantelli neri, come piombati da un altro secolo nella calda estate che si ostinava a non ritirarsi nemmeno a ottobre avanzato – aprivano l’Anno Accademico con i soliti rituali del “nonnismo” universitario tradizionale: scherzi, prove di forza o di fedeltà al gruppo e poi giochi, canti corali e birra nelle piazze fino a tarda notte. Forse solo una certa idea di “poesia” (“...che si fugge tuttavia...”) da opporre ostinatamente alla dura prosa dei tempi che corrono.
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