“Racconti. Mistero, assenzio e passioni” di Álvaro do Carvalhal
Álvaro do Carvalhal è uno scrittore morto poco più che ventenne a Coimbra, nel 1868, lasciando un’orma molto leggera sulla sabbia della storia letteraria: un’opera esigua composta sostanzialmente da un dramma teatrale quasi del tutto dimenticato e da sei racconti che, ancora oggi, gli valgono un posticino negli scaffali delle librerie e nei manuali di letteratura portoghese come esempio di autore ultra-romantico, ultra-gotico o schedato sotto altre etichette, sempre accompagnate da quel prefisso “ultra”. E si capisce: i suoi testi grondano di assassinii, suicidi, passioni indomabili, accoppiamenti ferini di vestali con cani, statue di commendatori che seducono vergini e lasciano con un palmo di naso il dongiovanni di turno, morti-viventi e figli nati da donne uccise prima del parto. Insomma, tutta la straripante fiumana di elementi tipici della letteratura fantastica, la quale, ricorda Tzvetan Todorov, si contraddistingue per quel suo sbilanciarsi continuo verso lo scioglimento finale, verso l’effetto (o, perché no?, effettaccio) che nei suoi meccanismi ricorda un po’ il motto di spirito freudiano, magari seguito da un grido di terrore o di stupore al posto della risata liberatoria.
Questi racconti di uno scrittore più sfortunato che maudit sono giunti fino a noi grazie alla cura di un compagno di studi, un tal J. Simões Dias, il quale si rivelò (con tutte le ovvie differenze del caso) una sorta di Max Brod bifido, che, proprio mentre riscattava dall’oblio l’eredità del suo piccolo Kafka, morto troppo presto per lasciarci di sé un chiaro profilo artistico e personale, ne individuava pure una serie di limiti stilistici, attribuendoli ora alla sua cultura irrimediabilmente classica, ora alle sue già cattive condizioni di salute. Una non rara forma di biografismo patologico che, fatte salve ancora una volta le differenze, in Italia ha prodotto tutta l’aneddotica sulla mamma di Leopardi e, in Portogallo, toccherà persino a Fernando Pessoa e alle prime biografie che lo riguardavano.
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Eppure l’interesse di questi testi risiede proprio nel processo di rifacimento di vecchie ricette, magari declinate ora con ossequio alla tradizione, ora con un’originalità che potrebbe essere tanto calcolata quanto naïf. A volte la repentinità dei cambi di scena, l’assurdità delle situazioni o la fantasia surreale di certi effetti “meravigliosi” li avvicinano – più che alla letteratura fantastica coeva, sempre appesa al filo dell’incertezza tra vero, assurdo e verosimile – alla scrittura dichiaratamente barocca («è del poeta il fin la meraviglia»...) o alla teatralità operistica. Non a caso uno degli scopritori recenti di Carvalhal, il regista cinematografico Manoel de Oliveira, dal racconto I cannibali ha tratto, nel 1988, un film musicale con i volti dei suoi attori feticcio più noti e le voci doppiate da cantanti lirici.
Non resta altro da aggiungere se non che in Italia – dove in passato erano già uscite delle versioni oggi introvabili dei Cannibali – i sei racconti completi di Álvaro do Carvalhal sono da qualche mese in libreria con il sottotitolo editoriale Mistero, assenzio e passioni per i tipi di una piccola casa editrice che risponde all’esotico nome di Vittoria Iguazu Editora. Le traduzioni sono a carico di vari, la bella prefazione è di Gianluca Miraglia, lusitanista che dei testi originali aveva già curato un’edizione, qualche anno fa, proprio in Portogallo. Per i cultori del genere, certamente un volumetto da collezionare prima che finisca fuori catalogo.
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