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RACCONTAMI (6) – “Il viaggio dell’orsa” di Vincenzo Pardini

Il viaggio dell'orsaIl bestiario di Vincenzo Pardini

Anche Vincenzo Pardini, come Ermanno Cavazzoni, si è confrontato con la forma del bestiario nella sua ultima opera: Il viaggio dell’orsa, Fandango Libri; ma a differenza dei tanti predecessori, nei suoi racconti gli animali non sono precipuamente un pretesto per parlare degli uomini; Pardini cerca anzi di indovinare la loro psicologia, di dare forma alle emozioni che provano e che in qualche modo esprimono. Ogni testo ha poi il pregio di intrecciare abilmente una pluralità di storie, alcune delle quali restano sospese, soprattutto quelle che riguardano la nostra razza – quasi a voler intendere che siamo ben più irrazionali e imprevedibili degli animali… Così è, ad esempio, ne La sfida e la pantera: nulla più sapremo (eccetto una fugace ricomparsa) del ragazzino che adotta il cucciolo di maremmano, né scopriremo altro delle esistenze dei due fratelli che comprano di contrabbando una pantera dopo che il fatidico incontro tra cane e felino si sarà compiuto. In questo come in altri racconti della raccolta si avverte un senso del tempo e dell’attesa che fa pensare a Buzzati e probabilmente non è un caso che l’autore dei Sessanta racconti sia citato insieme a Moravia, Meoni, Landolfi e Parise: maestri italiani della narrazione breve da cui Pardini sembra attingere anche la misura della sua elegante prosa; i loro nomi compaiono ne La vendetta del gufo, che vede il rapace notturno ingaggiare un duello con Faido, uomo violento e mendace che ha catturato la femmina e i piccoli. La vendetta è anche il fil rouge di altri due testi Il fratello del lupo e Il viaggio dell’orsa: entrambi ambientati nel Medioevo, il primo vede tra i personaggi anche l’Ariosto, il secondo Borso d'Este Duca di Ferrara a cui gli abitanti della Garfagnana recano in dono un cucciolo d’orsa scatenando l’ira dell’anziana e mastodontica madre. Con La picciona etrusca il viaggio a ritroso nel tempo giunge invece sino all’epoca delle guerre tra Etruschi e Romani, ma le gesta cantate non son quelle di antichi guerrieri, ma di una colomba viaggiatrice. Hanno invece per coprotagonisti degli adolescenti il western La pistolera (l’unico in cui gli animali hanno un ruolo assolutamente marginale) e Il gatto, che mette a confronto tre solitudini: quella del ragazzino narratore, quella di un anziano ex-recluso e quella di un prepotente soriano. Completa la raccolta Serague, storia di una mula che finisce anche tra gli Alpini e persino in un circo, tributo forse involontario alla Strada di Vasilij Grossman.

Vincenzo Pardini, dove nasce e cosa disvela il suo interesse per il mondo animale (per altro già manifestato nei racconti raccolti ne Il falco d’oro)?

Il mondo animale credo che sia nato con me. Sono vissuto in una società rurale, dove le bestie erano al servizio degli uomini. Appena cominciai a prenderne coscienza, e scienza, in me cominciò a nascere un moto di ribellione. Negli sguardi delle mucche, legate alle mangiatoie, nella solitudine dei maiali, con la pelle e lo scroto simili ai nostri, vedevo un qualcosa che ci assomigliava, ma in maniera dolente. Erano esseri condannati a essere sfruttati, poi macellati. Cominciò da lì la mia ripulsa verso la carne. Quando vedevo i familiari e altri mordere e magiare bistecche o polli, avevo la sensazione che si cibassero di cadaveri. Dovevo lottare molto per non mangiarne, creando contrasti e dissidi. Solo mia madre sembrava comprendermi. Altra tristezza me la davano gli asini e i muli mentre lavoravano, le tempie sudate come quelle degli uomini. Quando nel tempo mi sono impossessato dello strumento della parola, ho avvertito che dovevo difenderli. Erano e rimangono e saranno, come noi, creature dello stesso Dio. E non debbono essere macellate segregate maltrattate.

Leggendo i suoi testi si ha sovente l’impressione che l’uomo sia impotente dinanzi ai propri impulsi e all’enigma dei suoi simili ben più di ogni altra creatura…

Sì, gli uomini sono impotenti di fronte ai loro simili. All’epoca del fascismo bastava qualche caporione per imporre leggi e regole, che la maggioranza eseguiva. I nostri nonni e padri non riuscivano a capire di essere ingannati dal regime, che li avrebbe portati nei campi di battaglia e di sterminio, e si sottomettevano per paura o per quieto vivere. Solo in seguito trovarono la capacità di ribellarsi. Non è che siamo molto migliorati. Continuiamo a essere degli sconosciuti di fronte a noi stessi e al nostro prossimo. Non riusciamo a dialogare, a capirci, a volerci bene. In molti di noi vince il senso del male per il piacere di praticarlo. E lo facciamo con determinazione e costanza. Credo che il nostro grado di evoluzione, come vorrebbero religioni e filosofia, sia molto basso.

Come si colloca la sua opera intessuta di un linguaggio arcaico e potente, di una prosa lenta e meditata, in un panorama letterario che sembra prediligere uno sperimentalismo finanche eccessivo?

Ogni scrittore deve rendere conto a se stesso. Deve sentirsi dentro la propria lingua con lo stesso amore e passione di quando due esseri fanno l’amore; momenti in cui vibrano all’unisono. La lingua non deve essere sperimentale, deve essere sentita e vissuta. Lo scrittore ha il dovere di essere onesto, di non ingannare il prossimo, quindi gli deve trasmettere cose vere, nelle quali possa riconoscersi e migliorarsi. La letteratura, come la intendo io, dovrebbe infatti essere una nobile, aristocratica forma di intesa e di dialogo. Tutto l’altro resto non mi interessa.

Una raccolta di racconti italiana e una straniera che si sente di consigliarci?

I raccontidi Tommaso Landolfi e Sette storie gotiche di Karen Blixen.

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