RACCONTAMI (21) – “L’esteta radicale” di Fouad Laroui
I racconti di Laroui sul Marocco e i suoi espatriati
Chi si accostasse alla scrittura del marocchino Fouad Laroui sulla scorta del suo più noto connazionale, Tahar Ben Jelloun, resterebbe probabilmente interdetto: tanto il primo si avvale una scrittura semplice e si sofferma sulla quotidianità, quanto il secondo sperimenta e narra storie di una terra ancora esotica; ad accomunarli, forse, è solo una certa garbata ironia.
I racconti di Laroui raccolti sotto il titolo L’esteta radicale, tradotti da Cristina Vezzano e pubblicati da Del Vecchio Editore, nascono spesso da piccoli paradossi o da eventi grotteschi ma non del tutto inverosimili: nella Strana vicenda del quaderno bounni, per esempio, una circolare ministeriale stabilisce il colore delle copertine dei quaderni con cui i ragazzini devono recarsi a scuola, ma nessuno sa definire con certezza che gradazione di marrone o di giallo o di arancione sia il bounni; invece negli Accattoni vinti dalla tecnica si disserta sul tentativo continuo di istituire gerarchie e sull’impossibilità di averla comunque vinta sul Potere. Questi due racconti appartengono alla serie di quattro che ha tra i personaggi alcuni ragazzi sfaccendati, che si ritrovano a un bar di Casablanca e ingannano il tempo raccontandosi storie o semplicemente aspettando che accada qualcosa.
Ritengo però che i testi migliori non siano questi, ma quelli che rendono conto del disagio dei tanti nordafricani che hanno cercato e cercano un futuro possibile in Europa, ma qui magari trovano soltanto le radici del proprio passato, e indifferenza e sospetto. Laroui stesso, dopo aver terminato il liceo a Casablanca, ha proseguito gli studi e attualmente lavora nel “vecchio continente”, per cui racconta una situazione che risuona nel suo animo e che ha riscontrato tra i connazionali immigrati che ha avuto modo di conoscere.
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Il giorno in cui Saddam fu impiccato parte dall’episodio di cronaca dell’esecuzione del dittatore per descrivere come un arabo da anni residente ad Amsterdam ne venga scosso e suo figlio ne capisca il perché solo in seguito, discutendone con la sua compagna olandese:
«– Quel giorno è successo qualcosa. Hanno trattato Saddam Hussein con così poco rispetto… […]
– Se lo meritava, forse? Ha massacrato i suoi compatrioti sciiti, ha ucciso con il gas migliaia di curdi, ha scatenato guerre assurde… […]
– Okay, ma quello che voglio dire è che… è stato scientemente umiliato, come se avessero voluto umiliare tutti gli arabi…».
Essere qualcuno è invece la drammatica storia (non nuova in letteratura ma ancora di grande impatto e urgenza) di una traversata da clandestino, in cui le ragioni esistenziali si mischiano a quelle storico-geografiche. Ma è senz’altro quello che dà il titolo all’opera, L’esteta radicale, il testo migliore, non solo per la forza della storia narrata, ma anche per la costruzione pluriprospettica e per la maggiore tensione stilistica, sin dalla chiusura del primo paragrafo che annuncia la morte imminente del giovane protagonista, Ahmed. Costui studia a Marsiglia e fa diversi lavoretti per tirare a vivere; può apparire un tipo strano (e che indossi quattro mutande una sull’altra non la conta giusta), ma in realtà è solo a disagio: «A forza di incontrare, perlopiù, sguardi vuoti, diffidenti o silenziosamente ostili, era diventato a sua volta un viaggiatore dallo sguardo sfuggente. All’inizio si era spesso detto che non si trattava di lui, insomma. Ma non ne era certo». E che ancora molto vada fatto per rinnovare il nostro sguardo verso gli “altri”, gli stranieri, lo dimostra la paradossale ricostruzione della morte di Ahmed fatta dal capo della polizia e alternata al narrato in terza persona.
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