Quell’attimo che spezza tutto. “Riparare i viventi” di Maylis De Kerangal
Puntata n. 21 della rubrica La bellezza nascosta
«…che cosa sia questo cuore, cosa l’abbia fatto balzare, vomitare, crescere, danzare in un valzer leggero come una piuma, o pesare come un macigno, cosa l’abbia stordito, cosa l’abbia fatto struggere – l’amore; che cosa sia il cuore di Simon Limbres, che cosa l’abbia filtrato, registrato, archiviato, scatola nera di un corpo di vent’anni, nessuno lo sa davvero…»
Abbiamo grandi progetti, abbiamo giorni luminosi o più bui, ma abbiamo programmazione: domani farò questo, oggi sarà così, la prossima settimana andrò lì, questa notte dormirò con lei/lui; e poi arriva l’attimo che spezza tutto, come una grandine improvvisa, quell’attimo ammacca le ossa, svilisce il respiro, prosciuga la forza; di quell’attimo puoi essere spettatore o protagonista. Se in quel punto in cui il flusso si sfalda per aprire una nuova realtà sei protagonista, è probabile che la sofferenza possa durare davvero poco: ci sei, non ci sei più. Ma se ne sei, di quel momento, uno spettatore interessato e coinvolto, quell’evento cambierà il corso della tua storia personale, resterà come una cicatrice emozionale, uno di quei tagli invisibili che sanguineranno per sempre.
Se la nostra materia primordiale è la carne, e se sotto la carne battono e muovono organi caldi, tutto quello che resta è incorporeo, intangibile, fuori portata tattile.
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Ci sono finali inaspettati, finali precoci, finali che ti lasciano nella bocca l’assenza di suono, e nello stomaco la voragine di un dolore calcareo. La più grande sfida umana è, forse, quella di superare la distruzione interiore causata dalla sensazione di impossibilità, di mancanza di controllo; perdere una persona cara, perderla in una velocità spasmodica in cui il tempo si piega su se stesso e ti lascia mordere l’aria, battendo i denti, è forse il buco emotivo più grande che possa aprirsi nel nostro corpo.
Maylis De Kerangal è una scrittrice francese, nata a Le Havre nel 1967, Riparare i viventi è stato pubblicato in Italia da Feltrinelli, e la traduzione è a cura di Maria Baiocchi e Alessia Piovanello.
Siamo in Francia, Simon è un adolescente amante del surf, insieme a due amici sta rientrando a casa dopo una notte passata sulla spiaggia; il destino, però, lo attende lì a pochi metri, il loro pulmino ha un incidente, Simon riporta un forte trauma cranico, finisce in coma irreversibile. Da quell’istante lì, un meccanismo struggente si innesca, meccanismo in cui vengono coinvolte le vite dei genitori, della sorella, della fidanzata; le vite dei medici e degli infermieri che dovranno riuscire a salvare i suoi organi per dare ad altre persone la possibilità di salvezza.
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«Ha annunciato la morte del figlio a quell’uomo e a quella donna, non si è schiarito la gola, non ha abbassato la voce, ha pronunciato le parole, la parola “deceduto”, poi ancora la parola “morto”, parole che cristallizzano uno stato del corpo. Ma il corpo di Simon Limbres non era pietrificato, è questo il problema, e con l’aspetto contraddiceva l’idea che ci si faceva di un cadavere perché, in fin dei conti, era caldo, l’incarnato acceso, e si muoveva anziché essere freddo, blu e immobile.»
La scrittrice transalpina con un sapiente uso del linguaggio e con una forza espressiva potente ci trascina in questo incubo a cielo aperto, dove la vita di ogni singolo personaggio viene assoggettata al dramma dell’esistenza e della morte, alla guerra antica del corpo e della sua sopravvivenza. Ogni frase, ogni periodo di De Kerangal, sembra vivere di vita propria, e l’intero romanzo appare come un perfetto mosaico, dove con lo scorrere delle pagine ogni pezzo trova il suo giusto incastro, e ogni emozione sfuma in qualcosa di diverso, ma non per questo diversamente tragico.
Un’epopea antica che ci lascia con il fiato sospeso nonostante poi tutta la trama del romanzo ci venga messa sotto gli occhi sin dalle prime battute.
«Marianne non dorme, ovvio, né sonniferi né niente, il dolore la schianta, è scivolata in una sorta di trance, solo così può reggere. Alle ventitré e cinquanta la vediamo tirarsi su di soprassalto dal divano del salotto – possibile che abbia capito l’istante in cui il sangue ha cessato di scorrere nell’aorta? Possibile che abbia sentito quel momento? Una vicinanza impalpabile – nonostante i chilometri sull’estuario tra l’appartamento e l’ospedale – che dà alla notte una profondità mentale fantastica, vagamente spaventosa, come se degli allineamenti magnetici sprofondassero in una faglia spazio – temporale…»
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Riparare i viventi è un viaggio alla ricerca del senso che ognuno di noi potrebbe tentare di dare al vivere, è una pozza di domande piena fino all’orlo e una mancanza concreta di risposte universali. Cosa accade quando non c’è più tempo per rimandare una decisione? Cosa potrebbe accadere se quella decisione fosse dolorosa come una lama che taglia un lembo di pelle senza anestesia? Dove finiscono tutte le urla strozzate nelle gole di chi si piega sulle ginocchia imprecando a braccia protese verso un cielo che non ha mai saputo ascoltarci?
La sacralità di un corpo, la mostruosità di organi che restano fedeli alla vita anche quando il contenitore di carne è ormai fuori da ogni possibile utilità.
In giorni bui come la notte e in notti solide come un chiodo incastrato nella gola, in quei momenti di respiro a spilli e contrazioni cardiache violente, non resta altro da fare se non lasciare andare il corpo, e il respiro e il battito del cuore, e sperare che salvare e salvarsi possano essere parole cadute dallo stesso ramo.
Per la prima foto, copyright: Taylor Leopold.
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