Quei giochi di ombre che tutti attraversiamo
S’intitola Giochi di ombre il nuovo romanzo di Daniela Dawan, edito da Giunti.
Un romanzo per ragazzi e sui ragazzi che però parla anche a noi adulti e alle nostre ombre perché, come l’autrice ama ripetere, si cresce fino alla fine della nostra vita. E le zone d’ombra sono sempre dietro l’angolo.
Tripoli, Bruxelles, New York, Milano e Roma, dal mondo della giurisprudenza a quello della narrativa. Come definirebbe la sua identità? E in che misura tutto questo influenza la sua opera?
Non c’è mai stata effettiva distanza tra i due mondi. Per il mio lavoro, mi sono sempre occupata di diritto penale il quale è spesso una fonte di storie e, comunque, un osservatorio straordinario delle vicende e della natura umana. Il passaggio è stato graduale, anche se molto sentito. Quando, nel 2006, ho terminato un libro sulla capacità di intendere e di volere degli autori di reato, la cosiddetta imputabilità, ho avvertito la necessità di scrivere di narrativa, perché sentivo di dover navigare libera con la fantasia, senza strutture precostituite. Quel testo sull’imputabilità, in realtà, era già a metà tra la scrittura tecnica e quella narrativa. Tripoli è la città in cui sono nata ed è il contesto in cui si svolgono le vicende del mio romanzo, uscito per E/O nel 2018, Qual è la via del vento. Bruxelles ha costituito una mera parentesi di lavoro; New York, la città in cui mio padre era curato per una forma rara di cancro e in cui è morto; a Roma vado mensilmente per il mio attuale impegno alla Corte di cassazione. E infine Milano, la città in cui vivo e che ha accolto la mia famiglia quando ero poco più di una bambina. Tutte mi hanno lasciato impressioni indelebili e favorito l’insorgenza di suggestioni. Quanto all’identità, è una faccenda complessa. Ci penso spesso. La mia, forse, è costituita di tanti tasselli che si compongono tra loro come in un puzzle. Alla fine, ne esce fuori il ritratto di una persona aperta al mondo e alle esperienze della vita, spero priva di pregiudizi. Sì, questo influenza molto la mia opera: non è forse un caso che la vicenda del mio primo romanzo, Non dite che col tempo si dimentica (Marsilio 2008), si svolga a Tunisi e che Giochi di ombre racconti Milano, un modo anche per sentirla mia.
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Dalla narrativa per adulti a quella per ragazzi. Qual è il fil rouge del suo impegno letterario? E cosa l’ha spinta a guardare con maggiore attenzione il mondo dei lettori più giovani?
Amo i giovani e li ho sempre frequentati, nel corso del mio lavoro (praticanti, tirocinanti) e nella vita privata. Con Daniel e Sara, figli ventenni di mio fratello, che considero come miei figli, ho sempre avuto grandi scambi di giochi, di idee, di fantasie. Sin da quando erano piccoli ho passato gran parte del tempo raccontando loro storie. Conosco anche alcuni dei loro amici con cui mi diverto molto. Quello dei giovani non è per me un mondo lontano. Il fil rouge nel mio impegno letterario, almeno finora, è rappresentato dalla capacità che hanno alcuni personaggi di scoprire con la fantasia verità nascoste, misteri del passato. E poi, forse, la nostalgia per cose che non tornano più, rievocate e riportate in vita da una memoria che non è un mero contenitore di ricordi ma un elaboratore continuo di vicende, poco importa se vere o false.
Il romanzo ha inizio con un riferimento all’impegno ecologista dei ragazzi, con una citazione esplicita dei Fridays for Future. Che idea si è fatta di queste manifestazioni?
Le considero molto positivamente. Mi sembra giusto che i giovani siano in prima fila nella sfida per le sorti del pianeta, che si facciano promotori di manifestazioni e facciano sentire forte la loro voce. Anche perché il loro impegno è autentico, privo di interessi di alcun genere. Hanno destato l’attenzione dell’opinione pubblica su temi tenuti in sordina e mai risolti da chi potrebbe farlo.
Il titolo del romanzo, Giochi di ombre, è molto rappresentativo del viaggio attraversato dai giovani protagonisti. Com’è nato questo interesse verso l’adolescenza e le sue zone d’ombra?
Le zone d’ombra non le attraversano solo i giovani. Tutti, a ogni età, attraversiamo nella vita zone d’ombra, percorsi che ci fanno crescere. Penso che si cresca sino alla fine della vita se si hanno la forza e la capacità di apprendere.
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Antonio, Olivia, Omar e Nina sono i quattro protagonisti. Ognuno di loro è portatore di qualcosa con cui fare i conti e che allo stesso tempo ci invita a riflettere. Come ha scelto queste loro caratteristiche? E in che modo ha lavorato per cucirle addosso ai personaggi e amalgamarle alla storia?
È una domanda a cui è difficile rispondere. I personaggi nascono con alcune caratteristiche di base che prendono forma e si arricchiscono nel corso della narrazione. Si parte con degli spunti e mano a mano si cresce nella definizione del personaggio, ma non è, per me, un’operazione costruita a tavolino. Le cose vengono scrivendo. Mi piaceva far vivere e incontrare quattro ragazzi, portatori di idee, sentimenti e provenienze diverse e che la storia si svolgesse a Milano.
Se dovesse pensare alla sua adolescenza, quali sono le differenze principali che le saltano agli occhi rispetto agli adolescenti di oggi?
Gli adolescenti di oggi hanno a disposizione la tecnologia e, quindi, i social. Sono bombardati di informazioni, di stereotipi, spesso di falsi valori. Non era così per me da adolescente. In un certo senso la vita era più lineare e le cose vere lo erano davvero. Noi eravamo adolescenti più timidi, più riservati, meno esposti a questa esasperata visibilità, meno fragili rispetto a un giudizio negativo e meno dipendenti. Penso, ad esempio, all’influenza nefasta che possono avere i social rispetto ai giudizi di valore dati con estrema superficialità e percepiti, talvolta, anche drammaticamente da chi li riceve.
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