Quaranta passeggeri in una nave verso l’oblio. “Senza amare andare sul mare” di Christian Pastore
Prima di Senza amare andare sul mare Christian Pastore non era uno scrittore, bensì un collaboratore di alcune fra le case editrici più conosciute in Italia, in qualità di consulente e traduttore.
Con questo primo imponente romanzo invece, Pastore si fa spazio fra gli autori contemporanei, a passo pesante e deciso ma lasciando che siano i lettori stessi a giudicare la qualità del risultato.
Dalla critica infatti, Senza amare andare sul mare, edito da Frassinelli, è stato in qualche modo giudicato negativamente per l’esuberante quantità di pagine e, in particolare, per uno stile di scrittura non facilmente classificabile in una delle tipologie narrative alle quali siamo abituati.
Se questo è vero, altrettanto vero è il fatto che Christian Pastore ha saputo rendere unici una scrittura, uno stile, una collezione di vite che ha rinchiuso nella grande nave da crociera protagonista della sua storia, come una specie di cassetto chiuso a chiave da tempo e in attesa di essere esplorato, qualsiasi cosa esso contenga.
Fra le righe si ritrovano probabili ispirazioni derivanti da romanzi diversi, ottimi o pessimi che siano, uno stile che spesso risuona come una specie di tavolozza traboccante di colori, un esperimento che tutto sommato riesce a perseguire uno scopo e, malgrado le critiche, a sopravvivere.
Ma di cosa parla Senza amare andare sul mare?
La trama (o meglio sarebbe dire: le 40 trame) si sviluppa a bordo di una nave da crociera chiamata Tituba. Una grande nave dal carburante inesauribile che si lascia trasportare dalle onde senza mai raggiungere la terraferma. A un certo punto il lettore finisce per immaginarla come una specie di galeone fantasma trasformando a sua volta i passeggeri nelle ombre di ciò che un tempo sono stati o avrebbero potuto essere.
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Ospiti della Tituba sono in effetti 40 passeggeri, e nessuno di loro ricorda la ragione che li ha condotti su quella nave, né come ci siano finiti, tantomeno dove siano diretti. Tutto ciò che imparano a conoscere è l’isolamento con il quale sono stati costretti a convivere, senza telefono, né computer, né altri possibili strumenti di connessione con una realtà diversa da quella che li circonda, dal mare, dalla Tituba e dagli altri singolari protagonisti.
All’inizio le giornate trascorrono in balia della calma, di una spensieratezza che il mondo occidentale ricerca costantemente: conversazioni leggere e banali, intrattenimenti e cibo.
Uno solo è il compito assegnato a ognuno di loro: scrivere un diario. La ragione non è data, né è stato spiegato in alcun modo perché in ogni cabina i passeggeri abbiano trovato una loro foto proveniente dal passato, tutto ciò che devono fare è scrivere, ma cosa? Incapaci di trovare una fonte d’ispirazione nel presente, i 40 singolari inquilini della nave si ritroveranno a scrivere del passato, della loro vita e del cammino che li ha condotti a diventare ciò che sono.
Ecco che attraverso le pagine dei diari Senza amare andare sul mare prende forma grazie alle diverse quanto uniche vite dei passeggeri.
Christian Pastore intrappola il lettore in una tela di incastri e racconti quasi a sé stanti ma allo stesso tempo connessi da una linea sottile, un filo rosso che si intravede durante l’intero persorso del romanzo.
Chi sono questi 40 passeggeri? Perché sono finiti a bordo della Tituba e a quale scopo?
Sono queste le domande fondamentali che ci si porta appresso alla pari dei protagonisti e sono queste stesse domande che finiscono per gettare una luce di mistero e di suspense che rende il romanzo una sorta di giallo, un thriller privo però di tutti quegli elementi che dovrebbero renderlo tale.
Manca infatti la tensione, mancano le scoperte, i colpi di scena. Christian Pastore sembra voler giocare in questo senso, cercando di dar vita a una tensione partendo dalla sua stessa assenza.
Ciò non toglie che, malgrado la lunghezza e la dispersione, Senza amare andare sul mare prende a suo modo una forma in grado di spingere il lettore fino alla fine. La scrittura è scorrevole e leggera, ricca di temi, impressioni, opinioni che saltano di volta in volta in bocca a un protagonista diverso.
Non è facile evitare un paragone con l’attuale società occidentale. Volente o nolente è come se Christian Pastore avesse cercato di imprigionare a bordo della Tituba ognuno di noi, con il suo presente e con il suo passato, spingendoci al largo, in un mare che non è altro che il nostro stesso inconscio, sempre più profondo e oscuro.
Ha voluto eliminare tutto ciò che oggi ci connette al mondo, a una realtà che poi non è affatto quella tangibile che avremmo a disposizione semplicemente guardandoci attorno con l’unico scopo di farci riscoprire “cosa siamo”, “chi siamo” e non “cosa vorrebbe riflettere di noi stessi”.
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È un’atmosfera davvero straniante quella evocata dalle pagine di questo “non romanzo”, la stessa atmosfera che traspare dal dipinto descritto all’interno di un racconto ambientato a Venezia di E.T.A. Hoffman, nel quale compare in italiano la stessa iscrizione che ha ispirato il titolo che Pastore ha scelto per la sua prima opera. Egli ne parla in un’intervista pubblicata online:
«É una frase composta da parole semplicissime, che dovrebbero quindi essere di comprensione immediata, e che invece così immediate non sono. Ancora una volta, dunque, l’interpretazione ha un ruolo fondamentale, e attraverso un titolo simile il mistero diviene parte integrante del libro ancora prima di iniziarne la lettura, in modo diverso a seconda di chi ne sarà il lettore».
Basta questo per evidenziare il carattere simbolico di Senza amare andare sul mare, un tuffo nella realtà che Christian Pastore identifica, forse, come una nave fantasma priva di meta.
Per la prima foto: copyright Andrew Neel.
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