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Quant’è difficile tradurre i modi di dire? Intervista a Ilaria Piperno

Quant’è difficile tradurre i modi di dire? Intervista a Ilaria PipernoDopo Lost in translation Marcos y Marcos pubblica in Italia il secondo lavoro della scrittrice e illustratrice Ella Frances Sanders, Tagliare le nuvole con il naso, anch’esso, come il primo, tradotto in italiano da Ilaria Piperno.

“Sentirsi come un polpo in un garage”; “mettersi un gatto in testa”; “soffiare paperelle”; “tagliare le nuvole col naso”: questi sono solo alcuni dei modi di dire provenienti da tutto il mondo raccolti e illustrati dall’autrice.

Tagliare le nuvole con il naso è un libro sui modi di dire ma è anche un’occasione rara per avventurarsi in culture diverse e inoltrarsi in mondi lontani, per rintracciare espressioni capaci di sentimenti da sempre provati e che non si è mai stati in grado di descrivere, per scoprire che un’emozione o una sensazione, a volte, sono più condivise di quanto non si immagini.

Per parlare di questo libro, continuando un filone di interviste già intrapreso che pone al centro la figura del traduttore, abbiamo incontrato Ilaria Piperno e con lei abbiamo parlato anche di parole e interculturalità, di traduzione e intraducibilità.

Ilaria Piperno è nata e vive a Roma. Traduce e collabora con moltissime case editrici, ha tradotto, fra gli altri, Irene Némirovsky (La sinfonia di Parigi e altri racconti, Elliot, 2012), J.F. Gayraud (Divorati dalla mafia, Elliot, 2010), J. Harpman (Il piacere del crimine, Giulio Perrone Editore, 2007), P. Besson (Marilyn Monroe non è morta, Giulio Perrone Editore, 2007) e l’autobiografia di Jella Lepman (La strada di Jella. Prima fermata Monaco, Sinnos, 2009), la donna di origine ebraica che fondò IBBY. Ha partecipato all’antologia di traduttori Uccelli di fango (I Dragomanni, 2012) e ha soggiornato presso la residenza per traduttori letterari di Seneffe, in Belgio.

 

Ci potrebbe svelare com’è nata la traduzione di questo volume? Se non sbaglio quella del libro che l’ha preceduto, Lost in translation (Marcos y Marcos), è nata su sua iniziativa… È stato così anche per questa?

Sì, è vero, ho proposto in Italia e poi tradotto Lost in Translation: dopo averlo avuto tra le mani non ho resistito, ed è andata bene... dato che il primo libro aveva già avuto un buon riscontro, per The illustrated book of sayings (Tagliare le nuvole col naso in italiano) mi sono limitata a segnalare allo stesso editore che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sarebbe uscito a breve un altro volume realizzato da Ella, a mio parere ugualmente valido. L’editore ha verificato e poi deciso di volerlo pubblicare, così durante l’ultimo Salone del libro di Torino ho saputo che avrei lavorato anche a questa nuova traduzione.

 

I singoli modi di dire inseriti in Tagliare le nuvole col naso presentano un’illustrazione dell’autrice. Testo e immagine: come vive da traduttrice la concomitanza di questi due elementi? Per lei è più un limite alla traduzione o, piuttosto, una sorta di trampolino di lancio?

Non direi che è un limite, affatto. Forse un ulteriore elemento da tenere in considerazione mentre mi confrontavo con la traduzione. Di fatto Ella aveva già tradotto in immagini le parole intraducibili e i modi di dire di questi due libri, quindi la mia traduzione in italiano doveva tenere conto di entrambi. Non ho mai tradotto fumetti o graphic novel, in questo caso la relazione testo-immagini appare comunque diversa, il contesto è diverso. Una delle idee di entrambi i libri è quella di rappresentare parole e modi di dire in immagini, quindi il testo in italiano doveva non soltanto essere fedele al testo originale inglese ma richiedeva di mantenere una relazione di fedeltà anche alle illustrazioni, se vogliamo. È quello a cui ho pensato mentre traducevo.

Quant’è difficile tradurre i modi di dire? Intervista a Ilaria Piperno

Per chi traduce incontrare un modo di dire nel testo a cui sta lavorando è sempre un potenziale “inciampo”, cui prestare particolare attenzione. Quali aggettivi userebbe per descrivere il valore e il ruolo che secondo lei riveste un modo di dire in un testo tradotto?

Per un traduttore i modi di dire presenti nel testo originale rappresentano un potenziale “inciampo”, come giustamente dice, ma sono anche un’occasione. Occasione di creatività. I modi di dire appartengono al mondo delle metafore, sono in genere profondamente radicati nel contesto culturale di riferimento della lingua – e cultura – di partenza e di certo costituiscono uno degli elementi più complessi da affrontare nella traduzione. Se dovessi istintivamente usare degli aggettivi per descriverne il ruolo e il valore, direi “metaforico”, “comunicativo” e “creativo”. La loro funzione linguistica è infatti quella di fare riferimento a un ambito metaforico del significato, di essere ad alto tasso di comunicazione e influire in modo creativo non solo nella produzione linguistica della lingua di partenza, ma anche di richiedere altrettanta creatività e inventiva a chi sta creando un altro testo nella lingua di arrivo. Ovvero al traduttore. I modi di dire portano con loro elementi del quotidiano, del mondo popolare, come ad esempio gli animali. In Tagliare le nuvole col naso troviamo polipi, gamberi, grilli, lupi, scarafaggi e altri animali ancora... 

 

Tagliare le nuvole col naso è un libro incrocio di lingue, testimonianza dell’interculturalità che sempre sottostà all’interlinguismo? In quest’epoca di interculturalità e commistione come vede il futuro della lingua italiana? E della traduzione in questo contesto?

Non sono certo nella posizione di indicare le tendenze della lingua italiana di oggi, non mi sento di farlo. Ciò che posso dire, e si tratta del mio sguardo personale, è che le lingue, compresa la nostra, sono materiale vivo, evolvono e lo fanno molto velocemente, forse più velocemente di quanto gli stessi “parlanti” si rendano conto. Da questo punto di vista i linguisti, i traduttori, chiunque mantenga un rapporto anche professionale con la nostra lingua si trova in una posizione privilegiata per osservare e riflettere sui cambiamenti in atto. Credo che la reciproca influenza, commistione, scambio tra le lingue rispecchi sempre dinamiche in atto complesse, legate ai flussi migratori o allo spazio massiccio occupato dalla tecnologia. Che le tecnologie abbiano un impatto rilevante sulla lingua e sul modo in cui viene usata è cosa nota; non parlo soltanto delle parole ma anche di altri elementi strutturali ugualmente portatori di senso, come la punteggiatura o la sintassi. E poi la fortuna di alcune parole e la disfatta di altre dipendono dal sapore di un’epoca, dalla sua velocità, cupezza o benessere. Oggi il confronto tra culture è quotidiano, onnipresente, e la traduzione ha un ruolo rilevante lì dove comprendersi diventa anche necessità, non solo una scelta. La traduzione permette la circolazione delle idee e l’accesso a quelle idee a un numero maggiore di persone, e in questo senso la considero potente nell’avvicinare mondi distanti. Si ha meno timore di ciò che si può capire.

Quant’è difficile tradurre i modi di dire? Intervista a Ilaria Piperno

Cosa risponde a chi dice che un traduttore è un “artigiano sconosciuto”?

Rispondo che il traduttore è sì un artigiano, sono d’accordo. O meglio, il traduttore fa un lavoro artigianale – e rispondo con le parole di Giorgio Amitrano, il notissimo traduttore dal giapponese. Sull’aggettivo sconosciuto invece non sono affatto d’accordo. Invisibile forse sì, forse, a volte e non necessariamente, ma non sconosciuto.

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Lei è autrice di traduzioni di grandissimo successo di critica e di pubblico. Esiste un libro che secondo lei andrebbe tradotto e pubblicato in italiano ma che non ha – ancora – trovato il favore di un editore? E se sì, come se lo spiega?

Ci sono molti libri che meriterebbero di essere tradotti. E poi ci sono quelli a cui sarebbe bello poter donare una nuova traduzione, non perché quelle realizzate non siano di qualità ma perché la lingua cambia e le traduzioni, che di lingua sono fatte, possono invecchiare. O libri per i quali un’unica traduzione è troppo poco, libri talmente fecondi da meritare più traduzioni ugualmente eccellenti. Penso ai capolavori di Joyce di cui sono di recente uscite nuove, splendide traduzioni. Tutti i traduttori hanno libri che vorrebbero vedere pubblicati nella propria lingua. Personalmente mi piacerebbe molto leggere una nuova traduzione di un libro incredibile, Chiamalo sonno di Henry Roth, tradotto e poi nuovamente rivisto dal grande traduttore Mario Materassi: sarebbe bellissimo se a trent’anni di distanza ci fosse un’ulteriore traduzione. Per quanto riguarda me, è da oltre un anno che cerco di proporre un romanzo francese che mi sta molto a cuore, ma forse ho trovato l’editore giusto…vedremo. Non è detto che un libro che ha avuto un buon riscontro nel Paese d’origine lo abbia anche in un altro, o a volte può accadere anche il contrario. Ricordo l’enorme successo dei primi libri di Amos Oz e Abraham Yehoshua in Italia, scrittori già importanti in Israele ma che in Italia furono davvero accolti in modo sorprendente. Ciò che davvero aiuterebbe ad accogliere nuove traduzioni sarebbero politiche di sostegno agli editori sia per le traduzioni verso la nostra lingua che al contrario: qualcosa si è fatto, ma c’è ancora da fare…

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Ha a disposizione un desiderio: se potesse pescare dal mazzo di tutte le lingue del mondo, quale vorrebbe parlare?

Questa è una bellissima domanda. E soprattutto un bellissimo desiderio da poter realizzare, soprattutto per un traduttore. Nel mondo dei desideri si può osare, e dunque invece di una lingua sola, gliene dico due. Vorrei parlare il cinese e l’urdu. La prima è legata a ricordi d’infanzia, quando un’amica romana, nel quartiere in cui sono nata, la parlava e scriveva alla perfezione già alla scuola elementare. Ascoltavo dai miei genitori alcune lingue europee che loro insegnavano, mentre il cinese era la lontananza allo stato puro, “la lingua straniera” per antonomasia, la lingua che ascoltavo e che trascinava con sé un mondo ancora lontanissimo nella Roma di metà anni ’80; il cinese è la prima lingua che mi ha fatto assaporare la lontananza dei suoni e della grafia e che contemporaneamente mi ha reso curiosa, che mi ha fatto pensare con senso di sfida: voglio riuscire a capire. Poi non l’ho mai imparato, ma nel mondo dei desideri mi piacerebbe parlarlo. La seconda è l’urdu, una lingua con cui sono venuta superficialmente in contatto grazie a Lost in Translation. Ho fatto alcune ricerche perché mi aveva colpito la parola Naz presente nel libro, e questa lingua ha iniziato a incuriosirmi…

 

Per Lost in translation ha dichiarato che la sua parola preferita era “Ubuntu”. Quali tra i modi di dire di questo libro rispecchia di più o è più vicino alla sua sensibilità, o semplicemente il suo preferito?

Sebbene non fosse la parola meno nota Ubuntu è la mia preferita; l’avevo dedicata a due persone speciali, per me, due sorelle. Questa parola ha istintivamente riempito una lacuna linguistica della mia lingua madre e mi ha dato modo di esprimere in una sola parola la vita di queste due persone. Così, in questo caso, il mio detto preferito è “Ti mangerei il fegato”, che mi ha naturalmente permesso di esprimere un sentimento per tre persone carissime che cito anche nei miei ringraziamenti. Quest’espressione in farsi vuol dire “ti voglio un bene infinito”. Da quando ne sono venuta a conoscenza l’ho usata diverse volte. Il fegato è sede di emozioni e sentimenti in una tradizione ricchissima e antichissima, quella araba, così come lo è per noi il cuore. Ma l’immagine del fegato è forse ancora più viscerale. Poi ci sono altri detti che mi hanno colpito, come il tibetano Dare una risposta verde a una domanda blu o anche lo stesso Tagliare le nuvole col naso, che in serbo indica una persona che è talmente piena di sé, ha un ego talmente ipertrofico da arrivare alle nuvole. E poi Risucchiato come il calzino di un postino che, in spagnolo colombiano vuol dire essere profondamente innamorato. Risucchiato da un’emozione forte come quella dell’amore. Stupendo.

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