Quando una lingua muore. “L’idioma di Casilda Moreira” di Adrian N. Bravi
Molti luoghi portano con sé ferite sanguinanti che mai si cicatrizzeranno. Guerre, conflitti o addirittura stermini hanno macchiato la storia di questi posti, dando dimostrazione negativa dell’opera distruttiva che l’uomo riesce a esercitare nei confronti dei suoi simili in nome della supremazia e del potere. Homo homini lupus, così è sempre stato e così sarà sempre; è intrinseco nella natura umana agire in questo modo e tale natura non può essere purtroppo modificata.
La storia di molti paesi è stata segnata da genocidi di intere popolazioni autoctone in nome del colonialismo. Si pensi agli indiani d’America o agli indios o a molti altri popoli, dei quali si è persa ogni traccia. Cosa ne è stato di loro? Della loro cultura, lingua e usanze? Quando un popolo ha voluto imporre la propria dominazione su un altro popolo ha finito quasi sempre con il sopprimere ciò che originariamente vi aveva trovato. Quasi tutte le lingue indigene si sono estinte, insieme alle popolazioni che le parlavano. Sono rimasti solo ricordi di mondi scomparsi per sempre, alcuni dei quali li troviamo citati sui libri di storia, mentre di altri non è rimasto più nulla per rammentarci che in un antico passato anch’essi sono esistiti. Più che di assimilazione in molti casi occorre parlare di una vera e propria estinzione linguistica, di un fenomeno che si produce quando non rimangono più tracce degli interlocutori nativi di un idioma parlato da una popolazione.
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Le lingue hanno una vita; anch’esse nascono e muoiono come tutti gli organismi viventi. Adrian N. Bravi, scrittore argentino, da anni trasferitosi in Italia, nel suo ultimo romanzo L’idioma di Casilda Moreira (Edizioni Exorma) scrive: «Una lingua è legata alla vita delle persone, come il sangue e […] muore con la morte di queste». Una lingua può essere codificata; si può «scrivere un poema, o una canzone epica, ma senza parlanti la lingua resta solo un relitto appeso alla parete di un museo».
Con questo romanzo Bravi propone una preziosa opera di riflessione sul valore delle lingue in estinzione, argomento sul quale raramente ci soffermiamo, ma che invece non bisognerebbe tralasciare, dato che si tratta di un fenomeno che continua a verificarsi anche oggi in molti Paesi, seppure per cause differenti dal passato. Recenti studi hanno dimostrato che ogni quattordici giorni una lingua muore o perché si smette di parlarla o perché si utilizzano termini presi in prestito da altre lingue. Se tuttavia una lingua rappresenta l’identità originaria di un popolo occorrerebbe allora fare in modo che essa resti in vita.
La trama del romanzo è semplice ma con una morale profonda. Giuseppe Montefiori è un professore di etnolinguistica ossessionato da qualche tempo da «questioni di carattere pratico» che non lo lasciano dormire e che lo portano a estraniarsi dal mondo. Quando lo studente Annibale Passamonti si reca a trovarlo a casa, perché il professore da un paio di giorni non si presenta più a lezione, Giuseppe gli confida la causa di ciò che lo attanaglia. Nella Pampa argentina vivono due anziani che parlano una lingua molto antica, l’idioma degli Indios Gunun a Kun. I due superstiti si chiamano Bartolo Medina e Casilda Moreira, rispettivamente di 75 e 70 anni, che tuttavia, per questioni personali legate al passato, non si rivolgono più la parola. Il professore Montefiori propone al giovane Annibale di recarsi in Sudamerica, per provare a recuperare una testimonianza di questa lingua che rischia di scomparire definitivamente. Non esistono registrazioni di dialoghi di questa parlata; nessuno a parte Bartolo e Casilda la parla e comprende. Annibale si recherà nella Patagonia settentrionale in cerca dei due anziani. Questo viaggio assumerà la forma di un vero e proprio viaggio spirituale che indurrà il giovane a riflettere sul significato dell’esistenza e lo condurrà a riannodare i fili della propria vita.
«Ci sono posti che, anche se li vedi per la prima volta, ti sembrano così familiari che giureresti di esserci già stato e di conoscerne persino le lingue e le abitudini, perché sei sicuro che li avevi dentro, quei posti, e che solo ora hai deciso di tirarli fuori per farci due passi in santa pace».
Immerso nella sconfinata pianura argentina, in cui lo spazio scuote, chiedendo di osservarlo in silenzio, senza dire niente, senza definirlo o circoscriverlo, in compagnia di un piccolo taccuino dal quale non si separa mai e nel quale annota emozioni e pensieri che il luogo e la gente che vive lì gli suscitano, Annibale si porrà tanti interrogativi: «Quando sono arrivati gli spagnoli dentro il territorio argentino si parlavano non meno di 35 lingue […] dove sono andate a finire? Quale vento soffia su quelle lingue che nessuno parla più?». Se la natura e la lingua sono un corpo unico che s’impossessa di chi lo abita, perché una lingua deve morire insieme ai suoi parlanti? Cosa bisogna fare per evitare che ciò accada?
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L’idioma di Casilda Moreira è un romanzo genuino, scritto con uno stile limpido, chiaro e scorrevole, fatto di discorsi brevi e in certi passi quasi musicali. I pensieri interiori che soffiano sull’animo di Annibale sono quelli che catturano di più il lettore e che lo portano a capire che forse, a volte, pronunciare tante parole è superfluo, che bisognerebbe prendere esempio dai discendenti di questi popoli antichi che hanno imparato a svuotare il mondo dall’inessenziale e ad apprezzare maggiormente e in silenzio la natura e il mondo che li circonda, senza volere a tutti i costi dominarla.
Per la prima foto, copyright: Ken Treloar su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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