“Quando lei era buona” di Philip Roth
di Giulia Taurino
Quando lei era buona (Supercoralli Einaudi, 2012 – traduzione di Norman Gobetti) è l’unico romanzo di Philip Roth in cui l’azione si svolge interamente attorno a una protagonista femminile. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1967, precede il cambiamento stilistico che avverrà con l’autobiografico Il lamento di Portnoy e che porterà lo scrittore di origini ebraiche al successo indiscusso. Nella sua singolarità, questo romanzo al femminile ha il merito di portare alla luce il grande talento di Roth nell’esaminare in modo intenso e brutale la realtà delle relazioni umane. Anticipando una tematica ricorrente nelle sue opere successive, Quando lei era buona porta in scena il drammatico fallimento di un matrimonio infelice e distruttivo. In un climax lento e inesorabile, l’autore ci mostra la vita di Lucy Nelson, una ragazza di diciassette anni severa e inflessibile, mossa dall’implacabile desiderio di essere buona.
Ambientato nei primi anni cinquanta nella provincia americana dell’Ohio, tra Liberty Center e Fort Kean, la vicenda si apre col ritratto del nonno materno di Lucy, Willard Carroll, un uomo la cui massima aspirazione è essere corretto e civile. Cresciuto con la sorella affetta da ritardo mentale, Willard diventa presto cosciente della sostanziale impotenza dell’uomo di fronte allo svolgersi delle cose. La sua propensione ad assistere in silenzio all’avvicendarsi degli eventi avrà un effetto disastroso sulla figlia Myra, donna debole e passiva che si sacrifica completamente a un uomo alcolizzato e violento, arrestato e chiuso in carcere diverse volte. L’ultima vittima di questa reazione a catena è la giovane Lucy, in continua lotta contro il padre e in costante difesa della propria integrità morale.
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Nonostante le grandi potenzialità e le alte aspirazioni, rimasta involontariamente incinta, Lucy è costretta cedere a un destino crudele e beffardo che la obbliga a lasciare il college per sposarsi con il fidanzato Roy Bassart, uomo irresponsabile e viziato, reduce dal servizio militare e aspirante fotografo.
Intrappolata in un matrimonio che non ha mai desiderato con un uomo che non ama, Lucy diventa in qualche modo colpevole della sua stessa intelligenza, che la conduce ad un malessere sempre maggiore: frustata e isterica, allontana progressivamente il marito Roy e il figlio Edward in un’apoteosi di rabbia e dolore che la rendono davanti agli occhi della famiglia di lui una carnefice spietata e detestabile. Difendendo strenuamente la propria moralità anche nella più profonda disperazione e sofferenza, Lucy tenta di elevare se stessa al di sopra degli altri sostenuta da valori universali come la verità, la bontà e la giustizia. Colta in una potente immagine finale, Lucy viene fotografata come eterna vittima di se stessa e degli altri, della propria volontà e dell’ipocrisia altrui, in quella che è la conclusione perfetta di questa poderosa tragedia.
Con la sua prosa elegante e sicura, Philip Roth dipinge una delle figure femminili più interessanti della letteratura americana. Nella costante certezza della propria integrità, Lucy Nelson combatte una guerra incessante contro le menzogne e i fallimenti che la circondano. Costretta da obblighi e doveri morali a sacrificare se stessa in una spirale autodistruttiva, impone a Roy il medesimo trattamento trascinandolo in un universo di rimpianti e frustrazioni. Nonostante l’apparente misoginia con la quale viene descritta, Lucy Nelson con la sua feroce onestà rimane l’ultima grande vittima del cieco moralismo patriarcale della società americana.
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