Quando la trama esplode. “I vivi e i morti” di Andrea Gentile
Che ci sia nella letteratura italiana degli ultimi anni il tentativo di riqualificare l’opera-libro come atto ed evento linguistico, si sa: e possiamo dire che s’inserisce in questa tendenza l’ultimo lavoro di Andrea Gentile, I vivi e i morti, uscito per minimum fax lo scorso marzo.
La storia – o sarebbe meglio dire “gli accadimenti” – messa in scena dallo scrittore molisano si svolgono alle pendici del Monte Capraro, a Masserie di Cristo, centro intorno a cui gravitano altri piccoli nuclei come Torre di Nebbia e Taverna Soffocata. L’atmosfera è profondamente meridionale, sottolineata dall’insistenza sugli alimenti propri del sud più agreste e selvaggio: la cotica, gli gnumareddi, i nervetti. Sul principio tutto potrebbe far pensare a un giallo: Assuntina è scomparsa, Tebaldo ha costretto sua figlia Italia a ucciderlo. Perché?
Pagina dopo pagina però la “trama” esplode e si disgrega, quella che acquista via via più importanza e spazio narrativo è piuttosto l’evocazione, la suggestione, la riflessione, che è sempre riflessione sporca, squarciata, non definita. Quindi vivi che muoiono e morti che non sono morti ma vivi, tutto è fantasmagorico, la linea che separa i vivi dai morti è sempre più sottile.Personaggi che temono la vita tanto quanto temono la morte, che inseguono una verità che scivola sempre sul piano metafisico.
Fulcro narrante di questa storia sono i bambini, esseri sempre al confine fra consapevolezza e ingenuità, fra il bene e il male.
«L’innocenza dell’infanzia non è innocenza reale, perché è soltanto di forma e non di sostanza. Tuttavia essa si manifesta con chiarezza sul volto dei bambini. I bambini non sanno nulla del bene e del male, del vero e del falso da cui proviene il pensiero. Non conoscono la prudenza e la rabbia. Belano come pecore, lanciano cori da stadio, disturbano la quiete.»
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Sono loro, i bambini, a porre le domande, sono loro, i bambini, a essere poi in balia degli adulti, sono il motore narrativo delle vicende; e sono sempre loro che hanno posto le basi di questi uomini che vediamo muoversi e perdersi fra queste pagine.
«Assuntina. Sono stanco di vivere, non ho ideale e non ho pace. Penso sempre alla mia mammina. Mi sento un santo e un criminale al tempo stesso. Eppure odio Dio e non ho ucciso nessuno.»
Perdersi nel vero senso della parola; in questo libro a volte i personaggi semplicemente scompaiono.
I dialoghi fra gli abitanti di Masserie di Cristo passano da una sconcertante mancanza di senso e linearità a preziose riflessioni metafisiche che sviluppandosi sempre sul terreno linguistico e metaforico del primitivo, ci dicono qualcosa di profondo e di nuovo sui temi che affrontano.
«Cosa c’entra mai il corpo con l’arte? Piuttosto il sangue. La parola, l’atto. Si devono spezzare. Un passo indietro sulla via del pensiero. Fare l’arte, secondo me, è viaggiare in territori misteriosi. [...] Tu non è che devi fare l’esperienza, devi essere l’esperienza. Fare l’arte è togliere di scena. Il senso del mondo non sta certo nel mondo. Sta fuori dal mondo. Proprio come il ragno secerne il filo della ragnatela facendolo uscire da se stesso e riassorbendolo in se stesso, così la mente proietta il mondo da sé e di nuovo lo dissolve in se stessa.»
Vi è ricerca e sapienza primitiva nei personaggi di Andrea Gentile, e leggendo questo libro ci sembra d’incontrare lo spirito antico di un’epoca da cui forse possiamo imparare a capire qualcosa di più sul nostro presente, e nei grovigli di questa vicenda che spesso resta oscura e incomprensibile, come in un film di Lynch, ci sembra di poter intravedere una verità intrinseca in ciò che invece è in superfice e si dispiega sotto i nostri occhi: la nostra vita.
Nonostante anche nell’epigrafe sia citata l’Iliade di Omero questo non è tanto il racconto di una staticità contradditoria e violenta, quanto piuttosto le varie trame e lo svolgersi della vicenda assomigliano al peregrinare dantesco; un muoversi nelle grotte e nei cunicoli della terra alla ricerca di qualcosa – un indagare, un andare a vedere fino in fondo che cosa muove gli avvenimenti. Nient’affatto simile all’Odissea in quanto rifiuta qualsiasi eroica centralità e abbraccia invece il racconto corale, la polifonia dei fatti e delle voci, la mancanza dei fatti nella polifonia delle voci: perché i morti non possono entrare nella sfera materiale del mondo, “i morti non mangiano”.
E se questo libro troppo volto a restituire un particolare tessuto linguistico e stilistico trascura il più delle volte la consequenzialità di una trama, foss’anche solo abbozzata, e le psicologie dei personaggi, c’è un personaggio che mi sembra in definitiva perfettamente riuscito, e che forse rappresenta l’apice artistico di questo libro: il Custode. Tutti i personaggi sono tridimensionali, escono in qualche modo dalle pagine, coinvolgendo il lettore in un’esperienza reale, ma restano poi in fin dei conti vuoti, tutti in qualche modo uguali, arresi, invasati; il Custode racconta invece la sua storia con forza e coraggio, s’impone sulla narrazione per raccontare la sua vita, per risolvere i suoi dubbi e le sue incertezze, e permette al lettore di toccare finalmente con mano un uomo.
«Che cos’è questa lettera? Farò un atto di ammissione. Un atto per te inaudito. Forse questa lettera non per te. È solo ed esclusivamente per me. È un gesto di teatro. Potrò parlarne e dire: ecco, ecco il mio dolore, almeno un segmento di dolore. Queste sono le pagine del mio dolore.»
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L’unica perplessità riguarda la lunghezza, forse eccessiva, del testo, che in certi momenti lascia il dubbio che l’autore abbia cercato a volte più l’esibizione di forza che la necessità. L’azione letteraria di Gentile è però certamente potente e incisiva. Un libro che lascia al lettore tante domande e un forte ritmo in testa: la più grande dote di questo tessuto linguistico mi sembra la forte e preponderante musicalità timbrica e filosofica che l’autore riesce a dare alla sua prosa.
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