Quando la mafia distrugge un paese. Il romanzo d’inchiesta di Barbara Giangravè
Inerti di Barbara Giangravè (Autodafé) è una storia che si apre e si richiude sul suo titolo. Inerti sono i materiali nocivi che vengono nascosti dalle mafie nel terreno di un paese siciliano, inerti sono i cittadini che respirano e mangiano quel veleno, che si lasciano morire senza alternative.
Giangravè è una giornalista che arriva al romanzo dopo un fitto percorso di inchiesta e impegno antimafia, e questo vissuto si intreccia alla storia, alla sua atmosfera, a tutti i personaggi. Lo si avverte nella struttura narrativa, nelle situazioni, nelle soluzioni drammatiche.
La protagonista, che raccoglie le fila della vicenda, che smuove la sonnacchiosa esistenza di Acremonte, si chiama Gioia: orfana, improvvisamente disoccupata, torna in questo paesino dell’entroterra siciliano dove sono nati e anche morti, in un incidente stradale, i suoi genitori, e si installa nella grande dimora familiare per riorganizzare la propria vita. In effetti il racconto corrisponde proprio a un ritorno alla vita della ragazza, che trova un nuovo lavoro nella libreria del posto e riallaccia i rapporti con l’amore della sua adolescenza. La rinascita, però, deve passare per una serie di riconciliazioni con punti oscuri del passato, annidati ad Acremonte come sono annidati i rifiuti tossici che avvelenano inesorabilmente i cittadini. Cominciato negli anni Ottanta, e proseguito per molto tempo con la connivenza e l’arricchimento dei notabili e dei sindaci della città, il traffico degli inerti (materiale edilizio di scarto) ha riempito intere cave e avvelenato le sorgenti per l’approvvigionamento della città.
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Lo scenario è tipicamente siciliano: il paese sembra un posto sospeso oltre il tempo e lo spazio, non vi si arriva se non con una corriera lenta. Una realtà chiusa in sé stessa, in cui il pettegolezzo gira velocemente, ma in cui si tacciono le morti per tumore sempre più frequenti, sempre più giovani. Tocca a Gioia, come una vera giornalista d’inchiesta, ricostruire gli eventi, spingendo le persone a parlare:
«Parola dopo parola, frase dopo frase, mettendo insieme ricordi personali e confessioni raccolte, fatti sulla bocca di tutti e testimonianze private, il parrucchiere ricostruisce per Gioia quel che è successo ad Acremonte e i motivi, forse, per cui ora la popolazione vive il dramma delle morti precoci».
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Parlare diventa, per il parrucchiere, la segretaria, il fruttivendolo, per tutti, liberatorio: non salverà dalla malattia, ma dal torpore, dall’indolenza, dall’inerzia– appunto. In uno dei dialoghi che scorrono nel romanzo, alla protagonista viene riconosciuto un ruolo taumaturgico:
«Dicevo che tu potresti essere paragonata a Prometeo.»
«Perché?»
«Perché hai regalato il fuoco agli acrimontani.»
«Quale fuoco?»
«Quello della ribellione.»
Impegnata in un’indagine sull’ecomafia in Sicilia, la Giangravè versa il materiale dell’inchiesta, abbigliato della finzione narrativa, dritto nel romanzo: è questo che dà il sale alla storia di Gioia, una tensione investigativa che si articola in disvelamenti successivi. Ma proprio nella facilità eccessiva con cui le agnizioni avvengono, nell’artificiosità con cui si rivelano legati alcuni personaggi, forse, si scopre la “finzione” del racconto.
Anche un colpo di scena studiato con grande intelligenza, verso la conclusione del romanzo, si sbriciola troppo in fretta, e lascia il senso asciutto di una storia che poteva involarsi e che invece si adagia con troppa rapidità su sé stessa. Potremmo dire, sembra voler rimanere “inerte” anche lei.
I carabinieri fanno domande caute, persino i cronisti si limitano a scrivere quello che la gente vuole sentirsi dire, attenti a non cambiare troppo bruscamente lo scenario rassicurante del quotidiano. La vena inquirente, insomma, resta l’ultimo, inutile vessillo di chi agisce la storia, di chi vorrebbe cambiarla con le proprie domande.
La disillusione, ci auguriamo, non investirà l’autrice, che è stata insignita nel 2011 del riconoscimento di Inspiring Woman of Italy per il suo impegno antimafia, e che rientra a pieno titolo nel catalogo della casa editrice Autodafé, che si ripropone di «lanciare nuovi autori, pubblicare opere che aiutino a comprendere e riflettere intorno alla realtà sociale dell’Italia contemporanea», come si legge nella pagina programmatica.
Barbara Giangravè mette a nudo un paradosso doloroso, quasi un modus vivendi dell’Italia media: stufi eppure inerti; ma non sempre, non tutti.
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