Quando la Luna può tutto. “La notte dell’incanto” di Steven Millhauser
Le notti estive hanno di per sé qualcosa di magico, ma quello che ha immaginato Steven Millhauser nel suo ultimo libro, La notte dell’incanto (Mondadori editore, traduzione di Sonia Folin) va oltre ogni immaginazione portando il lettore in un luogo onirico, appena oltre al confine del reale.
Ci troviamo nel sud del Connecticut, in una calda notte d’estate, la Luna sta per sorgere, una straordinaria Luna piena.
C’è Laura Engstrom, un’adolescente che si rigira nel letto, madida di sudore non riesce a dormire, e seguendo il richiamo della Luna, del frinire dei grilli e del suo corpo in tumulto, esce di casa.
Così Steven Millhauser mostra uno a uno i suoi personaggi che, attratti dal sorgere della Luna, si ritrovano immersi nell’odore languido della notte estiva, faccia a faccia con i loro sogni o debolezze.
Ci sono William Cooper, l’uomo dagli occhi verdi, detto Coop, che vaga per le strade e si ferma a deporre i suoi pensieri su uno splendido manichino immobile in una vetrina di un negozio.
C’è Haverstrow, un nullafacente di trentanove anni che non riesce a ultimare il suo lunghissimo romanzo, così esce di casa per incontrare una sua ex insegnate, la signora Kasko, che è segretamente attratta da lui.
C’è Janet, la ragazza alla finestra, che guarda il giardino immobile e umido, in attesa che arrivi il suo amore.
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Mentre il mondo normale già dorme, i protagonisti di Millhauser sono svegli e tormentati, si muovono nella notte, ammirando la Luna sempre più alta nel cielo, che con i suoi raggi lugubri e affascinanti, ricopre ogni cosa rendendola incantata.
Ma l’autore mette in scena anche personaggi che abitano nell’immaginario comune, un espediente straordinario che dà a questo breve romanzo la sua unicità.
Come ad esempio il coro di voci notturne che, come una coscienza collettiva, esaspera con la sua voce i pensieri dei personaggi. Oppure la spiaggia che si anima di amanti e solitari in quella lunga notte d’estate.
Un gruppo di bambini, che non si sa se siano reali o inventati, o se siano i loro sogni a parlare al lettore, che vengono attratti dal suono di un flauto magico che li guida nel bosco.
Con la luce argentata della Luna, tutto può accadere e il lettore inizia a distaccarsi presto dalla realtà, lasciandosi trascinare tra le pagine, verso un mondo onirico che sfiora a tratti l’assurdo.
Diventa così totalmente credibile che il manichino, toccato dai raggi lunari che si insinuano in ogni crepa, prenda magicamente vita. Diventa possibile che le bambole chiuse in soffitta, un triste Pierrot e un orsacchiotto di peluche senza un occhio, inizino piano a risvegliarsi e fare delle cose.
«[ La Luna ] Illumina il tavolo della colazione e le quattro scodelle di cereali vuote decorate con disegni di mele, le camicie piegate e le cravatte a righe, i sandali bianchi del manichino nella vetrina dei grandi magazzini. Raggi di luna le accarezzano le guance, le lunghe dita, le labbra socchiuse. Sente che la luce le attraversa la pelle in fibra di vetro, la tranquillizza, accarezza la sua determinazione; avverte un estatico languore misto a segreta eccitazione, un allentamento dei vincoli rigidi della sua natura. Sotto il chiaro di luna la sua vita nascosta si sta risvegliando. Un tremito le anima le dita; una mano si piega leggermente all’altezza del polso. Dietro le lenti degli occhiali da sole, le sue palpebre si sollevano e si abbassano lentamente.»
Grazie alla luce magica della Luna, nel tempo del suo massimo splendore, prima che salga nel cielo e venga inghiottita dalla notte, la magia, in una piccola e sperduta città del Connecticut, accade.
Ciò che rende speciale questo libro, oltre i personaggi, è soprattutto lo stile di scrittura utilizzato.
L’autore riesce ad evocare fotografie stupefacenti dell’ambiente, e soprattutto, con una scrittura intrisa dai cinque sensi, porta il lettore al centro dei luoghi che ha scelto di descrivere.
Ecco che si è per strada con il personaggio Coop, e con lui si sentono i rumori della superstrada, i passi sull’asfalto; allo stesso modo si è in soffitta con le bambole risvegliate, e si annusa l’odore della polvere, dei bauli chiusi. Si riesce chiaramente a ascoltare il suono del flauto magico, e pare anche di sentire sulla propria pelle la calura estiva e l’odore notte, reso lieve dai raggi di Luna.
L’autore mescola abilmente descrizioni e sensazioni, la sua scrittura si lascia leggere facilmente e ha la capacità di trasportare il lettore nel mondo astratto del romanzo fin da subito e con pochi semplici righi.
«Attraversa il chiaro di luna e si addentra nell’ombra dell’acero argentato, e lei percepisce il passo aggraziato che attraversa il giardino come una brezza sulla sua pelle. Lui si siede sull’altalena. Aggancia le braccia alle corde. Guarda accigliato verso la finestra, striscia il sandalo su un pezzetto di terra. Le corde piegate, la curva del suo collo, l’osso del- la caviglia che spunta dal sandalo, tutto questo sembra misterioso e bellissimo come il chiaro di luna che si riversa nel giardino. Quindi si dà una spinta e comincia a dondolare. Si aggrappa alle corde, stende le gambe, si allunga, ondeggiando nella luce lunare. E poi indietro, le gambe piegate quand’è inghiottito dall’ombra. Luce, oscurità, luce, oscurità, i pantaloni larghi che si increspano mentre dondola.»
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La notte dell’incanto è un breve romanzo che ha del meraviglioso, un piccolo volume da conservare e rileggere anche solo per il puro piacere di immergersi nel sogno, in un luogo a metà fra il dormiveglia e il mondo reale.
Chi non ha mai alzato gli occhi al cielo in una notte di Luna piena? Ecco, Steven Millhauser racconta di quei brevi momenti di magia, allargandoli, approfondendoli, dando loro forma e voce.
Fa durare l’incanto di un momento una notte intera, lasciando il lettore a bocca aperta fino all’ultima pagina.
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