Quando l’amore esplode, il furor di Fedra
Dopo aver analizzato le passioni travolgenti della Medea e dell’Atreo senecani, è opportuno analizzare un nuovo versante passionale: l’amore che, quando degenera in furor, diviene sentimento debordante e incontenibile.
L’amore della Fedra di Seneca si configura come sindrome psichiatrica poiché il carattere elegiaco dello stesso viene sublimato, sussunto e oltrepassato; in conseguenza di ciò, è possibile analizzarlo nell’ottica della medicina Pneumatica e dei suoi paradigmi. L’entrata in scena della protagonista ha i caratteri di una melancolia covata a lungo: parlando pateticamente alla sua patria natìa, si lamenta di essere ostaggio consegnata in “penatos invisos” e sposata a un nemico che ella non esita a definire “profugus” in quanto egli si sta facendo complice di un adulterio aiutando Piritoo a rapire Persefone, dea dell’Ade. La critica nei confronti di Teseo è spia di un’afflizione che nasconde motivazioni ben più segrete e incestuose: ella, infatti, cova un nutrito sentimento erotico nei confronti del proprio figliastro Ippolito e cerca di camuffare questo suo nefas incestuoso con l’invettiva contro il marito. È la stessa Fedra a mostrarlo dopo l’apostrofe iniziale:
«Trascuro le mie tele, il fuso mi scivola di mano. Non ho più desiderio, io, di onorare i templi con offerte, di unirmi al coro delle donne agitando, intorno agli altari, le torce iniziatiche dei riti segreti. No, e neanche di rivolgermi, con caste preghiere e atti devoti, alla dea che protegge questa terra, che a lei è consacrata. Vorrei, invece, stanare bestie selvagge, e inseguirle, e scagliare il giavellotto di ferro con questa debole mano. Dove vuoi arrivare, anima mia? Povera madre mia, riconosco il tuo male fatale. È nelle foreste che il nostro amore impara la colpa. Madre, ho pietà di te. Per la passione abietta che ti prese, tu amasti, temeraria, il bestiale re di un branco selvaggio.»
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Sono ben evidenti i sintomi melancolico-pneumatici di un amore che Seneca non esita a definire significativamente “malum”: esso “ardet intus” in una condizione di surriscaldamento-gonfiamento tipica di una donna in preda al furor. Questo fuoco che le divampa dalle viscere e che le rende insano il pectum è, da lei stessa, paragonato al vapore che fuoriesce dall’Etna, proprio come la bile si riversa a fiumi dalle cavità ipocondrie da cui il suo male ha origine e che porta alla corruzione dello pneuma corporeo (è utile ricordare che, per la medicina stoica, l’uomo è dominato da questo flusso vitale, lo pneuma, che scorre dall’anima al corpo e viceversa e, di conseguenza, una corruzione dello stesso a livello corporeo affeziona anche l’anima e viceversa). Il dolore psicologico e la disfunzione fisica s’ingigantiscono parallelamente fino a dispiegare tutto il proprio potenziale distruttivo.
Un’angolatura differente riguardo alla passione melancolica è ravvisabile nel dialogo tra la Nutrix e Fedra: la regina, infatti, sembrerebbe che, viste le suppliche della prima per cercare di moderare il nefas dell’altra, giunga a ritrovare il pudor perduto in un rinsavimento che la porta a invocare il suicidio. La sua invocazione potrebbe, in prima istanza, sembrare una stoica scelta di morire intesa come una via per mantenere la propria “pudicitia”; analizzando più attentamente le sue parole, però, si comprende come il richiamo al pudor e al suicidio siano solo uno sfogo estemporaneo e non sincero: ella sta percorrendo un proprio decorso mentale di pazzia che la sta portando a spostare il baricentro della sindrome biliare dalla condizione melancolica a quella maniacale. Tale passaggio è evidente nel momento in cui la Nutrice afferma che Fedra è “mens effrena” e mostra i sintomi di chi è già passato all’adsensus animi: ella farebbe di tutto pur di vedere la sua passione oggettivata nell’atto sessuale con il figliastro. Di conseguenza, la componente irrazionale delle sue forze sta dominando su quella razionale; questo, però, non è un semplice dominio che porta al sopimento della seconda forza, ma è un asservimento totale della bona mens alla mens effrena, la quale utilizza l’altra per i suoi scopi nefandi.
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La donna, perciò, manifesta il suo amore a Ippolito che, figlio di un Amazzone e volto alla castità perfetta nonché misogino, la rifiuta, decidendo di allontanarsi da quella reggia sporcata dal nefas di Fedra. Nel far ciò è travolto e ucciso da un monstrum marino e la morte di lui porta Fedra al suicidio, in quanto, se non è riuscita a unire i loro due corpi in vita, potrà almeno unire in un sinolo eterno i loro destini, continuando in ciò il proprio desiderio incestuoso e perpetuandolo verso l’infinità temporale.
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