Quando il cugino che ami è anche un terrorista. Intervista a Giuseppe Culicchia
Il tempo di vivere con te esce per Mondadori, lo firma Giuseppe Culicchia ed è la storia sì di un ragazzo, di Walter Alasia, ma anche dell’Italia degli anni di piombo. È una vicenda che fa riflettere su quanto sia difficile chiedere alla Storia di assumersi le proprie responsabilità quando i traumi subiti dalla società sono ancora così freschi nella memoria.
È un viaggio a ritroso, quello descritto ne Il tempo di vivere con te, che ricostruisce l’atmosfera di un Paese, ciò che animava gli spiriti delle persone, il fermento che spingeva ad agire, giovani e non.
Per meglio capire chi sia Walter e quale sia l’Italia di cui Giuseppe Culicchia racconta, ne abbiamo parlato con l’autore.
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Come nasce l’idea del libro?
Il tempo di vivere con te è il primo libro che avrei voluto scrivere: se ho cominciato a scrivere, se ho dedicato tutti questi anni alla scrittura, è stato per riuscire un giorno a raccontare la storia di Walter, che prima di essere un brigatista era una persona, un ragazzo pieno di vita, sensibile, generoso, attento, e tanto affettuoso. Quando la mattina del 15 dicembre 1976 tornai a casa da scuola e vidi sullo schermo della tv la fototessera di Walter e lo sentii definire terrorista – e poi mostro, assassino – avevo undici anni, lui venti. E da parte mia non riuscii a collegare quella fototessera e quelle definizioni al Walter che conoscevo, che amavo e che amo tuttora. Il giorno dopo la sua uccisione promisi a lui e a me stesso che avrei raccontato chi era davvero Walter Alasia. Se ci ho messo più di quarant’anni è perché era per me molto difficile affrontare sulla pagina il dolore per quella perdita; dovevo trovare il coraggio per farlo, e il punto di equilibrio tra i miei ricordi di bambino e la mia consapevolezza di adulto: la consapevolezza innanzitutto del fatto che Walter quella mattina uccidendo Sergio Bazzega e Vittorio Padovani aveva reso vedove due giovani madri e fatto degli orfani, provocando tanto dolore, un dolore che otto anni dopo aveva ucciso di crepacuore sua madre, per me la zia Ada. Come Walter più che un cugino era un fratello maggiore, così Ada più che una zia era una seconda madre. E non a caso tutti i miei libri precedenti si sono sempre chiusi con il ringraziamento a Walter e Ada; e in Tutti giù per terra, il mio primo romanzo, il protagonista che non è Walter si chiama però Walter, e a un certo punto ci s’imbatte nella zia Carlotta, che poi muore, lasciando senza parole quel Walter. Quella pagina bianca di Tutti giù per terra, che segue la morte della zia Carlotta e cioè della zia Ada, ho cominciato a riempirla solo ora.
Il tempo dell’infanzia della voce narrante, Giuseppe, e dell’adolescenza di Walter coincide con un momento molto tormentato dell’Italia. Quanto può incidere la grande Storia sulla storia di un individuo? O meglio: in che misura lo plasma?
La grande Storia incide eccome sulle piccole storie di chi si trova a vivere la propria esistenza tra le pieghe di eventi capaci di stravolgere un’epoca, un Paese: da questo punto di vista, la lezione della Morante è sempre attuale. Walter Alasia è stato un figlio del suo tempo: nato e cresciuto a Sesto San Giovanni, l’allora Stalingrado italiana, in seno a una famiglia operaia, in cui entrambi i genitori lavoravano in fabbrica, Walter era adolescente all’epoca della strage di piazza Fontana e della morte di Pinelli, ed è diventato giovane uomo mentre il Paese veniva travolto da un vortice di violenza inarrestabile, in cui a distanza di pochi decenni andava in scena una replica a bassa intensità della guerra civile che aveva insanguinato l’Italia tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Ma oltre alla contrapposizione tra chi credeva nell’idea di una Resistenza tradita e chi si batteva per restituire l’onore all’Italia c’era appunto la lotta di classe, che si intersecava con la consapevolezza delle collusioni tra politica e mafia; dietro l’angolo, i colonnelli in Grecia e il Cile di Pinochet. Tutte queste cose hanno contribuito a incidere sulle vite di tanti, compresi i ragazzi che si arruolavano nelle forze dell’ordine, o le vittime civili delle stragi seguite a quella di piazza Fontana. Che però non fu la prima: perché spesso si dimentica che la storia di questa nostra Repubblica inizia con quella di Portella della Ginestra, il 1° Maggio 1947.
Un bollettino di guerra, a un certo punto: di che Italia si sta raccontando? Quanto questa Italia c’entra con l’Italia di oggi?
Gli anni cosiddetti di piombo paiono per certi versi lontanissimi. Eppure l’Italia di oggi è figlia anche di quel tempo. Un tempo con cui, a cominciare dal caso Moro, ancora oggi fatichiamo a confrontarci, perché costellato di cose indicibili, di omissis, di buchi neri. Il nostro Paese non ha mai voluto davvero fare chiarezza su un numero abbastanza impressionante di episodi, dalla succitata strage di Portella della Ginestra fino all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, passando appunto per piazza Fontana e per Ustica, per l’omicidio Pecorelli e per la strage di Bologna. Tutte queste cose in apparenza ormai lontane continuano ad avere a che fare con l’Italia di oggi e avranno a che fare con l’Italia di domani finché non verranno dette le verità indicibili, tolti gli omissis, riempiti i buchi. Ma non credo francamente che accadrà.
Walter appare essere tante cose, tanti esseri: chi è per Giuseppe?
Per me Walter è il fratello maggiore che mi insegnava a disegnare, a giocare a basket, ad andare in bicicletta senza mani, che giocava con me ai cowboy e gli indiani e a scacchi e a carte, che assecondava con un sorriso affettuoso ogni mia richiesta, che architettava scherzi in cui cascavamo tutti, che leggeva con me e da cui non mi staccavo mai quando da Sesto veniva in Piemonte coi suoi genitori per trascorrere le vacanze estive o le festività nel resto dell’anno. Walter è un ragazzo di vent’anni che ha ucciso ed è stato ucciso, direi per essere preciso giustiziato, dopo che ferito alle gambe giaceva inerme nel cortile di casa, lì dove bambino aveva giocato. Walter è un ragazzo che amava scherzare ma che ha preso troppo sul serio l’idea che la rivoluzione in Italia fosse dietro l’angolo. Walter ha spezzato la propria vita e quella di Bazzega e Padovani e provocato con la sua scelta un dolore che non passa in tanti altri esseri umani. Walter è per me un amore che proverò finché vivrò.
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Non era come tutti gli altri, Walter: cosa lo animava e quale visione del mondo custodiva?
Walter credeva sinceramente nella necessità e nella possibilità di cambiare il mondo, un mondo che ai suoi occhi era diviso chiaramente in oppressi e oppressori, ed era arrivato alla conclusione che questo status quo non si sarebbe potuto cambiare attraverso mezzi democratici ma solo con le armi. Nel compromesso storico portato avanti dal PCI di Berlinguer Walter vedeva il tradimento della classe operaia e delle masse sfruttate dal capitale, e la spartizione del potere da parte di un partito che dimentico della lezione di Gramsci si era deciso ad andare a braccetto con una Democrazia Cristiana che tra le tante sue correnti e anime – da quella più clericale a quella sociale – era però un partito che lui e tanti come lui ritenevano colluso con la mafia, anzi complice, e oltre che con la mafia con i mandanti delle cosiddette stragi di Stato.
Cos’è la scrittura per lei? Più precisamente: cosa rappresenta per lei la scrittura di questo libro?
Scrivere questo libro è stato per me un dovere: dovevo mantenere quella promessa fatta a lui e a me stesso. È stato anche il solo modo che avevo per stare ancora un poco con Walter. Ora che l’ho scritto, sto di nuovo con lui ogni volta che lo riapro: cosa che non faccio mai con gli altri miei libri. È molto doloroso, ma anche molto bello, perché lo sento di nuovo vicino; sento la sua voce e il suo profumo di pulito. Questo è per me il senso ultimo della scrittura, per quanto mi riguarda.
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