Quando il cinismo diventa dissacrante. “Darke” di Rick Gekoski
James Darke sembrerebbe un personaggio realmente esistito, mentre lo scrittore che ce lo racconta, Rick Gekoski, un suo fidato biografo. Incarna, in qualche modo, una figura scontrosa e livorosa, disadattata, con toni sociopatici che, a torto o a ragione, potrebbe perfettamente rappresentare quella parte di noi che si tiene a reprimere o che magari costringiamo al silenzio.
James Darke, un anziano signore, un ex insegnante di letteratura che dopo la morte della moglie, Suzy, decide di chiudersi in casa, di non ricevere nessuno, fosse pure la figlia, di assicurarsi altresì di tenere sotto controllo il quartiere, chi, insomma, si avvicina all’ingresso di casa sua. Esemplare, d’altro canto, è l’intervento sullo spioncino della porta di casa; al tecnico – che sarà costretto, suo malgrado, a fare entrare in casa – chiederà una visione grandangolare in modo da poter scrutare anche chi si insinua, nella sua proprietà, dai punti più remoti.
James Darke è cinico, è politicamente scorretto, è una figura fastidiosa persino alla sua persona. Pur volendo, infatti, esser spietatamente sincero nei confronti della vita, della moglie e della figlia, rimane comunque un essere inquieto, irrisolto, incazzato.
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È lui che s’incarica di mettere fine alle sofferenze della moglie, a quella quotidiana secrezione di vomito, bava e sangue, a quell’incessante dolore che, dipeso dal cancro, è sostenibile solo con dosi massicce di morfina. Procura così delle pastiglie giuste che sciolte nell’abituale e inglese thè della moglie, le assicureranno finalmente un sonno profondo e sereno.
«Sono sopraffatto dal dolore per la perdita, lo spreco, la fatuità. Non siamo anime immortali neppure in questa vita, figuriamoci nella prossima. Non incolpo Dio. Non siamo creati a Sua immagine, né a immagine di nessuno se non di una doppia elica di DNA che prosegue per la sua strada. Non siamo né creati né costruiti, solo eventi spermatici, uova penetrate, larve, prole. Nessuno riesce a capirci niente, mancano le basi necessarie per riuscirci».
Alla morte della moglie, il suo isolamento comincia a diventare preoccupante, in una irrisolvibile fase di declino. Per otto mesi non esce letteralmente da casa, spia il vicino, congiura contro il suo cane che odia maledettamente e contro il quale lancia, periodicamente, lacerti di carne stracarichi di peperoncino, perché si possa soffocare per il bruciore. Cosa che alla fine accade.
Si nega alla figlia. Non risponde né alle telefonate, né alle mail. Non l’accoglie neppure le volte che, allarmata da quel silenzio protratto, gli si presenta davanti casa.
Un ermetismo, un’impenetrabilità che comunque non gli farà perdere il rispetto di se stesso e, quindi, la perdita di controllo sul proprio aspetto:
«Anche se non ho nessuno per cui mantenere le apparenze mi prendo cura del mio aspetto perché mi sento davvero me stesso solo se sono vestito bene. Mi rendo conto che può sembrare sciocco o pazzo, o forse solo triste, ma indosso una camicia bianca pulita ogni mattina, e una giacca di cashmere dal taglio informale. I miei pantaloni di fustagno sono sempre stirati, le scarpe sono lucide».
La dose d’irrequieta malinconia di Darke non si attenua neppure con i mezzucci sperimentati, sempre in buona fede, dalla figlia Lucy.
Questa, infatti, istruisce Bronja, la domestica bulgara, a essere più accondiscendente nei confronti del burbero padre. Ad esempio, simulando interesse verso la letteratura, verso gli scrittori vittoriani, verso Dickens, il suo preferito scrittore sul quale, tra l’altro, da parecchio tempo, aveva iniziato a lavorare a una specie di monografia dall’eloquente titolo Ustione e bollore: Charles Dickens e la retorica dell’indignazione. L’impertinenza, tuttavia, della domestica le costerà il posto di lavoro.
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Darke, di Rick Gekoski, edito da Bompiani nella traduzione di Chiara Codecà, è un romanzo dissacrante, tratta argomenti seri, poco ortodossi, senza prendersi sul serio e senza ammiccamenti particolari verso il suo lettore. È caustico come, del resto, il personaggio che ne esce fuori.
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