Quando i migranti eravamo noi
In Per sempre, altrove (Fazi, 2022) Barbara Cagni ci racconta una storia di emigrazione ambientata a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando migliaia di italiani lasciarono il paese in cerca di condizioni di vita migliori. A differenza di quanti, al principio del Novecento, si erano diretti soprattutto verso le Americhe, i migranti del secondo dopoguerra scelsero altri paesi europei, in special modo Germaniae Svizzera, ma anche Belgio e Francia.
La narratrice, ancora bambina all’inizio del romanzo, vive con la famiglia in un paese montano del Comelico, la zona al confine tra Veneto e Friuli, teatro nei primi anni Sessanta dell’immane tragedia del Vajont, dove la povertà spinge molti giovani ad emigrare. Lo ha fatto anche Berta, la sorella maggiore, che tempo prima si è trasferita in Svizzera per lavorare in una fabbrica, ma che improvvisamente sembra essersi ammalata. Il padre parte per riportarla a casa, ma si scopre che la malattia della ragazza è di natura psichica e che non si può fare molto per lei. Raccontando la storia di Berta attraverso la voce della sorella minore, Barbara Cagni costruisce un vasto affresco della vita di quegli anni in un paese come tanti, segnato dalla povertà, dalla scarsità di prospettive per il futuro, dalla tristezza di chi è costretto a partire, ma anche dalla forza indomabile dei suoi abitanti, soprattutto delle donne, sulle cui spalle finisce per gravare gran parte dell’organizzazione familiare e sociale.
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Per sempre, altrove è un romanzo che, pur ambientato in un mondo che ci appare già lontano, affronta temi ancora attuali, come ci ha confermato l’autrice in questa intervista.
L’emigrazione veneta, come quella da altre regioni italiane, è un fenomeno che si è sviluppato in un arco di tempo piuttosto lungo. Cosa le ha fatto scegliere la collocazione della storia nel periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta?
Dal dopoguerra agli anni Sessanta ci fu la seconda grande ondata migratoria italiana. La regione che registrò il maggior flusso migratorio fu il Veneto, soprattutto verso mete europee: Belgio, Svizzera, Francia e Germania. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a considerare il periodo che va dal 1952 al 1963. Desideravo inoltre un contesto storico che vedesse il Veneto lacerato profondamente a diversi livelli, per consentirmi di riflettere sul senso dell’identità territoriale e dello sradicamento. In quegli anni troviamo una terra segnata dai due conflitti mondiali, dalla povertà e da una forte emigrazione. L’ elemento che cito più volte è il Piave, che è un po’ il testimone della storicità di quei luoghi. Sul Piave si sono combattute le due guerre mondiali, le sue acque sono servite all’industria idroelettrica (la stessa SADE che ha portato alla tragedia del Vajont), il suo corso veniva utilizzato per trasportare il legname, materia prima fondamentale alla vita della popolazione montanara.
Le comunità montane che descrive esprimevano forti valori di solidarietà, di aiuto reciproco di fronte ai problemi di una vita povera e difficile per tutti. Questi valori sono vivi ancora oggi?
Gli italiani hanno una profonda inclinazione alla solidarietà, sebbene oggi sia tarata su una società consumistica che non è certo quella del dopoguerra. Credo che in condizioni estreme, comunque, l’essere umano diventi solidale con i suoi simili perché questo atteggiamento rappresenta la modalità di sopravvivenza della comunità.
Anche se non mancano i personaggi maschili, quella di Per sempre, altrove è essenzialmente una storia di donne: donne solo in apparenza sottomesse, ma che in realtà costituiscono la struttura portante della comunità, anche nel caso di figure che sembrano più deboli, come Gilda che sopporta per anni le botte del marito. Viene allora da chiedersi perché queste donne così forti non fossero in grado di imporsi maggiormente e di scardinare o almeno modificare un mondo patriarcale.
Perché sono donne immerse nella cultura e nella società di allora, il loro ethos era calato in un mondo patriarcale. Le donne del romanzo sono libere quando sono insieme, riescono forse a percepire il fatto di essere donne in quanto tali e non perché mogli o madri o figlie. Ognuna di loro ha dei propri limiti, ma insieme evolvono. È questa loro complicità, questa sorellanza a renderle forti. Prese singolarmente, ognuna ha la propria vita trafitta da tragedie passate e presenti.
La Gilda diventa una donna libera quando resta senza marito e decide di trovarsi un lavoro, si emancipa, trova una via d’uscita.
L’emigrazione non si è mai arrestata, anche se adesso ha assunto altre forme, meno dolorose rispetto al passato: i giovani che oggi vanno a cercare lavoro all’estero lo fanno di certo in modo diverso rispetto ai loro nonni e bisnonni. Perché allora noi italiani, popolo migrante da sempre, non siamo capaci di comprendere e accettare le migrazioni dagli altri paesi verso il nostro?
Purtroppo, la storia si ripete. I temi del romanzo sono infatti attualissimi. La paura del “diverso”, dello “straniero” è insita nell’essere umano e questa paura viene manipolata politicamente, questo è il grande inganno. Negli anni Cinquanta gli svizzeri avevano paura degli italiani, li discriminavano e li sfruttavano, e il governo elvetico non favoriva certo l’integrazione. Basti pensare che gli immigrati italiani non potevano portare i propri figli in Svizzera. Il ricongiungimento famigliare fu consentito solo a partire dal 1964. Un governo che discrimina porta inevitabilmente a creare spaccature all’interno della società, odio, razzismo. Nonostante i nostri antenati siano stati vittime di questo trattamento, ci comportiamo in maniera identica con gli immigrati che giungono ora nel nostro paese.
L’emigrante vive di nostalgia e tende a conservare una visione del paese natale fissata al momento della sua partenza, perché vivendo lontano non può viverne l’evoluzione e tutti i cambiamenti. Da questo punto di vista, la nostalgia può alterare il giudizio nei confronti della madrepatria, ad esempio in occasione del voto di chi si è stabilito da molto tempo altrove?
Certamente poteva alterare il giudizio allora. Oggi vorrei sperare di no, con i mezzi di comunicazione di cui siamo dotati è più semplice mantenere viva e attuale la visione del proprio paese di origine, avere un’idea reale del presente. La nostalgia è un sentimento che resta, ma ridimensionato dalle condizioni dei nostri migranti di oggi. Chi lascia adesso l’Italia non lo fa sulle navi o sui gommoni, non finisce sfruttato e discriminato da popolazioni ostili. Non siamo gli italiani del dopoguerra, che non avevano un lavoro e morivano di fame.
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In questo romanzo lei è riuscita a trattare un tema doloroso come quello della malattia mentale con molta delicatezza. C’è una persona reale nei suoi ricordi che le ha ispirato il personaggio di Berta?
Sì, mi sono ispirata alla storia di mia zia, che proprio in quegli anni, dopo essere emigrata in Svizzera, diede i primi segni di quella malattia mentale che non la abbandonò mai.
Il Comelico è una terra martoriata, dall’immane tragedia del Vajont alla tempesta Vaia che nel 2018 ha abbattuto i vasti boschi centenari, nati dopo un’altra devastazione, quella della Prima Guerra Mondiale. La montagna ce la farà anche questa volta a rinascere?
Sì, sono convinta che la montagna ce la farà. La montagna è caparbia e piena di risorse, come i suoi abitanti.
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Per la prima foto, copyright: Tim Mossholder su Unsplash.
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