Puglia infelice – Taranto, la mafia sa aspettare
Le cose stanno proprio così. A Taranto si palpa l’aria densa di una città che aspetta, soffocata dall’Ilva, dalla politica e dalla mafia. Tre elementi disastrosi che si combinano come un veneficio per la città che più di ogni altra, in Puglia, rappresenta la storia e la cultura. Di quella Taranto della Magna Grecia non resta nulla, salvo la molle pigrizia di una società in declino, addormentata sugli orrori del presente.
La mafia riprende fiato dopo l’esperienza sanguinaria e fallimentare dei fratelli Modeo: una consorteria che aveva in mano tutta la città, che si estendeva nella provincia, collegandosi, di volta in volta, alla Sacra Corona, alla ‘Ndrangheta e alle autorità corrotte dello Stato (il porto di Taranto ha sempre svolto un ruolo nell’accrescimento di certi traffici illeciti, di armi, droga, mezzi militari di contrabbando, anche grazie a una forte presenza militare della Nato). Si trattava di un superclan molto violento e molto intelligente, ma non per questo infallibile.
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Terminata l’era Modeo, Taranto viene in qualche misura divisa, come Berlino, in aree di influenza che si succedono nel tempo e nello spazio. Il tracollo dell’Ilva provoca un impoverimento netto della città, cosa che porta le periferie a passare da centro di consumo a soli centri di spaccio. I Tamburi, Paolo VI, lo stesso centro storico, l’Isola, si trasformano in mercatini a cielo aperto. Ma il clima miseria e di povertà, confermato dal rozzo ritorno al racket sui mitili e sulla pesca, si aggrava fino a far diventare questi quartieri il terreno di scontro tra nuovi e vecchi mafiosi.
Chi stava coi Modeo deve sparire definitivamente, questo spiegherebbe gli ultimi omicidi. E basta poco, una scintilla, un insulto o un mancato saluto, perché il piombo lasci per terra cadaveri e fomenti nuove faide. A leggerla più da vicino, la mafia tarantina sembra più interessata a sopravvivere che a fare un nuovo salto. È tutta dentro la regola della città, dentro la società cittadina. Si tira a campare o a non morire, in attesa che tornino fiumi di denaro pubblico a innaffiare i giardini della malavita e del malaffare. E di denaro ne arriverà, con la legge regionale sulla città, con l’interesse mostrato dai recenti governi al caso Taranto. Denari che possono rinverdire il rapporto già piuttosto stretto tra partiti, movimenti civici, impresa e clan mafiosi.
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Il clima che si respira nei quartieri di mafia è quello dell’attesa: l’aria ferma, le tapparelle abbassate, le pistole col colpo in canna. Paolo VI è una bomba a orologeria, il timer che conta il tempo da qui al prossimo omicidio per debiti, per droga, per piccoli affarucci di poco conto.
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Ma su Taranto hanno puntato gli occhi i napoletani e, nuovamente, i calabresi. Anche loro, camorristi e ndranghetisti, aspettano i denari del Salva Taranto? Anche loro vogliono rifarsi la bocca col vino della speranza di Stato pagata dagli onesti per arricchire i disonesti? Lo stato di attesa si abbatte come una sordina sulla città, mettendo a tacere qualunque idea lungimirante e qualunque risveglio di legalità. Lo si è percepito durante l’ultima, nauseante campagna elettorale. Dove nessuno ha vinto davvero, con un astensionismo del cinquanta per cento e con i clan che si sono venduti sotto silenzio i voti senza mobilitarsi troppo. Poi, tra il primo turno e il ballottaggio, la mafia non ha taciuto più, ma ha sparato in pieno centro storico. Un fallito, piccolo regolamento di conti a pochi metri dal porto antico, dove i bassi delle vedette criminali puzzano come i portici di Paolo VI e dei Tamburi.
Così, tra tattiche scaramucce e omicidi, indolente va la malavita tarantina, adagiata sul comune non senso civico, su piccoli affarucci e sulla grande attesa di denaro pubblico.
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