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Primo Levi, I sommersi e i salvati: la verità appartiene ai morti

I sommersi e i salvati Primo LeviProvo vergogna, lo ammetto. E non perché sia Primo Levi a suggerirmelo con I sommersi e i salvati. Avvertii già un senso di colpa, quasi come non avessi il diritto di esistere, quando Se questo è un uomo mi suggerì la strada per il lager. Non potevo entrarci, non posso entrarci. Eppure, non riesco a pensare di essere qui, sapendo che loro sono stati lì. Morivano lì. Sono loro i sommersi, sono proprio loro quella colpa che ci portiamo dentro, un male che affiora solo il 27 gennaio. Forse. Lontano da queste occasioni, lontano dai film trasmessi: il silenzio; in qualche caso, anche la svastica; nella peggiore delle situazioni, l’ipotesi revisionista: la spudorata negazione di ciò che la Shoah è stata.

Levi ha sentito la necessità di incastrare in otto saggi il ritorno all’inferno, rispetto al quale la memoria è impotente e ogni parola, anche la più dura, appare leggera come una foglia al vento. Come le vite che, in quei lager, lasciavano spazio alle saponette. Come quei salvati che, una volta liberati, scelsero il suicidio: Jean Améry, Bruno Bettelheim, Paul Celan e lo stesso Primo Levi. Immaginavo che, con l’arrivo dei liberatori, la forza della vita chiamasse a sé tutti quegli ebrei, quegli zingari, quegli omosessuali, quegli oppositori; immaginavo che la forza della vita chiamasse a sé i sopravvissuti. Non credevo, però, che Primo, come molti di loro, sentisse sulla vita il peso della morte.

Non è stato facile leggere Se questo è un uomo. È stato ancora più difficile confrontarmi con l’impotenza di Levi, che è un sopravvissuto e “i Lager sono campi di sterminio, questo non va dimenticato” – le parole sono di Aleksandr Solženicyn, recluso nei campi di concentramento stalinisti dal 1945 al 1956. Voglio leggere il suo Arcipelago Gulag: voglio provare a immaginare cosa è successo, anche se già so che non ci riuscirò. Voglio soffrire. Ne avverto il bisogno; un po’ tutti dovremmo, anche a distanza di settant’anni. È un peso che ci porteremo addosso, penso; uno di quelli che la Storia ti consegna in lacrime, perché stufa di piangere, perché incapace di reggere la responsabilità della testimonianza.

Eppure, non è una vera testimone; neanche Levi lo è, tra le righe lo dice. Ed è sorprendente scoprirlo: è un testimone incompleto. La testimonianza che crediamo di aver letto, di aver visto, di aver sentito non è altro che una riproduzione: la testimonianza che ci aspettiamo non arriverà mai. Quella appartiene ai morti, appartiene ai sommersi, a quelli che “anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale! Settimane e mesi prima di spegnersi avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega”.

Mi sento piccolo, insignificante dinanzi a queste letture: è come se dovessi scalare un muro dagli infiniti metri d’altezza. Mi sento piccolo, insignificante, ma avverto l’esigenza di farlo, di partecipare non alla sofferenza, ma alla testimonianza, a questi infiniti pezzi di lettura che compongono uno scenario infinitamente incompleto di qualcosa che è indicibile, perché vive soltanto nella morte di coloro che hanno pagato il prezzo di aver vissuto all’epoca di Benito Mussolini, Adolf Hitler e Joseph Stalin; vive nel suicidio dei “liberati”, di quelli che, una volta fuori, hanno trovato la forza di tornare dentro, di ripercorrere nei luoghi della memoria l’addio al compagno, al figlio, alla moglie, anche solo al connazionale, l’addio alla vita. Vive in Primo Levi, che ha fatto i conti con i ricordi, con quello che fu e che, purtroppo, non smise mai di essere. Mi sforzo, cerco di comprendere il suo senso di colpa e un po’ ci riesco. La sua penna lascia il segno, perché non racconta: vive.

“Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato […], non hai accettato cariche […], non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno di noi sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico ‹‹noi›› in senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride”.

La vergogna è solo uno dei saggi del “ritorno”, il terzo per l’esattezza. Non è superfluo dirlo: Levi, infatti, ha incastrato i ricordi in un crescendo continuo, che tocca l’apice nell’ottava partizione. Questo che ho scritto, insomma, non è niente; anche se avessi riportato tutto, non sarebbe stato nulla. La verità appartiene ai morti.

Ma perché loro e non io?

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