Primo Levi e la vergogna di essere un uomo
Ricordare un autore classico come Primo Levi può incutere soggezione e insieme imbarazzo. Accade non tanto perché ci si rendiamo conto di trovarci al cospetto di un monumento alle patrie lettere, ma per il fondato sospetto di gravitare nell’orbita di alcune etichette ahimè logore che allo stesso Levi, quand’era in vita, e ai suoi più precoci estimatori, calzavano strette e rischiano oggi di consegnare la sua figura a un’Italia che legge poco e indulge, frettolosa e distratta, nel distillare il classico – che, non dimentichiamolo, è sempre un racconto che proviene dal passato – in formule facili e agevoli semplificazioni.
La prima e più naturale categoria è quella del testimone. Se questo è un uomo è uno dei più grandi memoriali sull’esperienza della deportazione nei campi di sterminio nazisti. Oggi sappiamo che Primo Levi non è più autore di un solo libro, che esistono differenze significative tra le sue varie opere, anche se il suo primo libro è qualcosa di unico. Come raccontare qualcosa che per sua natura è indescrivibile, come l’intensità di un dolore? È possibile rappresentare sulla pagina una scala graduata attendibile di un determinato livello di angoscia o di smarrimento della coscienza? «Ci siamo accorti per la prima volta che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo». La scrittura diviene uno scandaglio possibile di analisi e di automedicazione. Ma anche nei passaggi più realistici delle sue pagine l’occhio di testimone è sempre inestricabile dalla volontà di ordire un racconto complesso e ben strutturato. L’eccellenza di Levi è quella di essere insieme un narratore e un chimico, per formazione, perciò un uomo di scienza che sperimenta (suo malgrado) su materiali raccolti di persona.
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Facciamo un passo indietro: è il padre Cesare, ingegnere elettronico, lettore disordinato e spesso assente, a indirizzare il figlio verso la scienza, donandogli dei buoni testi di divulgazione. Quando si iscrive al liceo Massimo D’Azeglio, istituto noto per aver ospitato docenti illustri, oppositori del fascismo, Primo viene attratto dalla chimica e dalla biologia, assai meno dalla storia e dall’italiano. Alla licenza liceale viene rimandato a ottobre in italiano; questo non gli impedisce, comunque, di approfondire Dante, Ariosto, Manzoni e Leopardi, autori che influenzeranno la misura e l’armonia delle pagine che verranno. Nel 1938 il governo fascista emana le prime leggi razziali. Agli ebrei sono interdette le scuole pubbliche, ma viene consentito di proseguire gli studi a chi è già iscritto all’Università. Il fascismo riscuote poche simpatie a Torino: viene considerato come una stranezza, da biasimare e marginalizzare, a volte come una crudeltà gratuita. Nel luglio del 1941 Primo si laurea con lode; la sua è una tesi su L’inversione di Walden, imperniata sul tema dell’asimmetria delle molecole da cui nasce la vita; si tratta di una questione che apre orizzonti e problemi scientifici e filosofici: la vita si origina da uno scarto dalla norma, da un margine sottile che si sottrae a calcoli precisi; l’evoluzione della materia, così come la conosciamo, tende a sottrarsi alla regolarità e alla simmetria che è propria dell’arte e del bello come armonia di forme.
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Nel luglio del 1943 cade il governo fascista. Levi si dà alla militanza attiva nel partito d’Azione clandestino e tesse una rete di contatti fra i partiti del futuro Cln. Nonostante l’annuncio di un armistizio da parte del governo Badoglio, le forze tedesche occupano il nord e il centro Italia. Levi si unisce a un gruppo di partigiani in Val d’Aosta, ma in dicembre viene arrestato presso Brusson e in seguito tradotto nel campo di concentramento di Carpi-Còssoli. Il campo viene preso in gestione dai tedeschi nel 1944 e Levi viene avviato con altri prigionieri, tra cui donne e bambini, su un convoglio ferroviario con destinazione Auschwitz. Levi attribuisce la sua sopravvivenza a una serie di circostanze fortuite. Comprende la lingua dei suoi aguzzini, per averla studiata. La sua preparazione in chimica gli vale un posto come infermiere nel Kommando 98, che ha bisogno di addetti e che lo sottopone a una sorta di esame di idoneità su uno dei testi del quarto anno di Chimica, il manuale del Gatterman. Primo desidera comprendere non solo i carnefici ma anche le vittime. Il perseguitato, per lui, non è sempre nel giusto; occorre spiegare perché tra la gente che arriva da tutta Europa non si crea solidarietà ma, al contrario, molti sono disposti a collaborare, a fare i Kapo o svolgere servizi a supporto. Per tutta la durata della permanenza nel lager riesce a non ammalarsi ma prende la scarlattina proprio quando nel gennaio del 1945, in seguito all’avvicinamento delle truppe russe, i tedeschi lasciano il campo e abbandonano i malati al loro destino. Il suo rimpatrio, a causa della burocrazia russa, dura vari mesi e si concretizza in un viaggio che lo vede prima in Russia, poi in Ucraina, Romania, Ungheria, Austria e infine in patria. È l’esperienza del ritorno alla vita in un’Europa liberata che ha raccontato ne La tregua.
Per Levi quel viaggio è un’emozione che, in fondo, viene ricordata con nostalgia. È l’altro volto, più discosto, della sua razionalità. Confiderà all’amico Philip Roth: «La famiglia, la casa, la fabbrica, sono cose buone in sé, ma mi hanno privato di qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioè l’avventura». L’ex-deportato è ora solo nella sua casa di corso Re Umberto, con l’ossessione della testimonianza e il desiderio della letteratura. Se questo è un uomo viene scritto in una sorta di stato di trance, con un’urgenza quasi smaniosa, in dodici mesi. Ragionando sempre per assiomi non si considera mai abbastanza come un classico possa aver avuto un destino complicato, come racconta in un recente articolo, Stefano Ciavatta. Alla fine del 1946 il libro è pronto e viene proposto a tre editori. Lo stesso Levi racconterà più tardi che ebbe varie letture e toccò all’amica Natalia Ginzburg dirgli che a Einaudi non interessava. Nel clima del dopoguerra la gente era interessata a ricostruire le case e trovare un lavoro. I tempi non erano ancora maturi, non si aveva voglia di leggere i racconti dei deportati, c’era da lasciar decantare la materia. Nella Ginzburg può aver agito una sorta di rimozione, lei che aveva appena perso il marito Leone nel carcere romano di Regina Coeli, a opera dei nazifascisti. Anche Cesare Pavese temeva finisse sommerso dai tanti libri di testimonianze sui lager. Ci vorrà Arrigo Cajumi, fine ed eccentrico letterato, per incuriosire Italo Calvino, che recensisce il libro nel 1948, definendolo «magnifico». In Einaudi Calvino rimarrà l’amico e l’interlocutore privilegiato, sempre attento e disponibile.
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Levi lavora a La tregua di sera, dopo il lavoro come chimico presso la Siva, piccola fabbrica di vernici tra Torino e Settimo torinese, di cui diverrà il direttore. Per sua stessa ammissione non si considera ancora scrittore; certo ha molte storie da raccontare, non più cose tremende e necessarie ma le avventure allegre e tristi con i suoi compagni di viaggio, nel vortice colorato dell’Europa dopo la guerra, ubriaca di libertà. Anche per questo libro le classificazioni univoche si sprecano, pure quelle della critica più autorevole. Roth afferma che la peculiarità del testo è l’esuberanza, che ben si accorda con la definizione del viaggio data dallo stesso Levi: «Una parentesi di disponibilità illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del destino». Per Calvino è la «storia movimentata e variopinta d’una non più sperata primavera di libertà», ma non converrebbe, forse, porre l’accento su un titolo di cui si preferisce non percepire il tono cupo e sottilmente minaccioso? Tregua è un intervallo, una pausa tra una tragedia che si è compiuta e altre tragedie che incombono. In chiusura affiora un sogno gelido; le presenze degli amici, dei colleghi di lavoro e dei famigliari si sgretolano di fronte alla cognizione di essere di nuovo nel lager, e che nulla era vero all’infuori del lager. Nel sogno il campo di concentramento è il simbolo della condizione umana, è la morte alla quale nessun essere umano si sottrae. Al Premio Strega del 1963 il candidato ufficiale di Einaudi è Lessico famigliare di Ginzburg, ma La tregua arriverà terzo. Al Premio Campiello, a Venezia, il libro vincerà invece il primo posto alla fine dell’estate.
Il sistema periodico(Einaudi, 1975) avrà un tempo di gestazione lungo. La tentazione è quella di scrivere dei racconti sul suo mestiere. Il chimico russo Mendeleev aveva ordinato gli elementi in una tavola secondo il loro peso progressivo. Si ottiene un ordine che prima mancava, e la sfida del chimico Levi è quella di scrivere un racconto per ciascun elemento, isolandone la psicologia e i comportamenti del tutto simili a quelli umani, specie se assemblati, come tessere di un mosaico, in strutture più complesse. Questa ideale autobiografia diviene qualcosa di più ampio: l’esperienza del singolo si inserisce in una vicenda collettiva, non solo di quella ebraica ma anche di un’intera generazione. È una più generica storia d’Italia, delle sue angosce e titubanze, della tenebra del fascismo. Sempre nel 1975, anno operoso, avviene una svolta: Levi decide di raccogliere in volume tutte le poesie che aveva scritto fino ad allora. Ci viene naturale pensare alle epigrafi di Se questo è un uomo e La tregua come a degli episodi struggenti, splendide overture alla prosa ma Levi ha sempre scritto poesie. «Sono un uomo che crede poco alla poesia e tuttavia la pratico». Adorno aveva scritto che dopo Auschwitz non era più possibile fare poesia, ma l’esperienza di Levi va in senso opposto: «[…] mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. Dicendo poesia non penso a niente di lirico […] dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Il sentire privato, rimosso o camuffato per attitudine alla discrezione, diviene esplicito nei versi, soffuso di un sentimento d’ineffabile angoscia. Gli uomini sembrano muovere verso un destino irreparabile, dove il gesto più naturale è arrendersi: «È fatto tardi per vivere e per amare, / Per penetrare il cielo e per comprendere il mondo. / È tempo di discendere / Verso valle, con visi chiusi e muti […]».
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Nel luglio del 1978 La chiave a stella vince il Premio Strega. È la storia di un operaio montatore piemontese, che gira il mondo a costruire tralicci, trivelle, ponti e racconta del proprio mestiere. Il testo si propone come una rivalutazione del lavoro creativo, ma nel clima fortemente ideologizzato degli anni Settanta, in cui il lavoro era visto come disumano e alienante, suona ai critici come una provocazione. Se il personaggio di Faussone è un artista-demiurgo, imbevuto di scienza esatta, milioni di uomini sono schiavi di una catena di montaggio, privi di soddisfazione e di segni che li distinguano. Questo Levi lo conosce molto bene; è così simile alle dinamiche della forza lavoro del lager. Eppure il nostro ci sorprende ancora, evitando la fin troppo ovvia categoria, il solco che avrebbe potuto percorrere nel dibattito allora in voga, e chiosa: «La moralità del lavoro vale in assoluto ed è soprattutto un onere per chi vuole il cambiamento, il progresso, la rivoluzione liberatrice».
Nell’aprile del 1982 esce Se non ora quando, forse il libro in cui Levi ha investito più forze. Il romanzo vince prima il Premio Viareggio e poi il Campiello, assegnandogli la qualifica di scrittore di successo senza ulteriori precisazioni. Claudio Magris focalizza con acume il cuore segreto del testo, che rimanda alla tradizione epica ebraico-orientale, «col suo senso dell’assenza e dell’esilio, e l’incertezza d’ogni punto di riferimento […] Quella che Levi ci dà è una parabola dell’inappartenenza ebraica e del cammino dell’ebreo verso una patria cui finalmente appartenere». Il libro esce in un momento politico particolare: tra agosto e settembre Israele invade il Libano, perpetrando i terribili massacri nei campi palestinesi di Sabra e Chatila. Gli ebrei del 1982 sono i nuovi oppressori, da vittime del passato sono ora i carnefici. Levi rientra da un secondo viaggio della memoria ad Auschwitz, che lo deve aver turbato profondamente. In un’intervista con Giampaolo Pansa su «La Repubblica» afferma che la classe dirigente israeliana dev’essere abbattuta per aiutare il Paese a ritrovare le sue radici europee, l’equilibrio dei padri fondatori, di Ben Gurion, di Golda Meir. Nell’estate dello stesso anno intraprende un lavoro che finisce per farlo cadere in una prolungata depressione. Per la collana «Scrittori tradotti da scrittori», Giulio Einaudi gli affida Il processo di Franz Kafka. La traduzione non è problematica ma gli riesce dolorosa.
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Anche riguardo alla sua morte (in parte) misteriosa la tentazione di ridurre Levi in alcuni parametri consueti appare per certi versi inevitabilese non necessaria. Nonostante le soddisfazioni – traduzioni delle sue opere più importanti negli Stati Uniti vengono accolte con favore dal pubblico e dalla critica –, oltre alla depressione si invoca una certa stanchezza esistenziale, un rassegnarsi all’evidenza. L’11 aprile del 1987 viene trovato privo di vita in fondo alla tromba delle scale, nella sua casa di Torino. Si è trattato di una causa accidentale o di un suicidio? L’autore non aveva rivelato intenzioni di uccidersi; si era, però, fatto carico di un compito arduo: accudire la madre e la suocera malate. L’anno prima era tornato sul tema del lager nel saggio I sommersi e i salvati. In un’opera, la sua, che appare non certo lineare ma, per l’appunto, ciclica, il lager non è mai stato abbandonato. Auschwitz non è stato un fatto isolato e il chimico Levi non si stanca di pesare e analizzare gli elementi. La memoria umana, in questo compito, potrebbe rivelarsi fallace; i ricordi tendono a cancellarsi e modificarsi sotto l’azione dei traumi e delle rimozioni, per fissarsi in stereotipi, per venire abbelliti dall’arte. Non esistono ruoli definiti: le vittime, i carnefici e la gente comune si insediano nella «zona grigia», una regione ambigua dove le responsabilità non sono ben chiarificate. L’uomo è un intricato groviglio di antitesi ma Levi si è sempre imposto la massima tensione conoscitiva, al riguardo. Tornando all’argomento della sua tesi, l’asimmetria di Walden si rivela intrinseca alla vita; l’ipotesi è che quell’anomalia sia la memoria storica di uno scontro prodottosi nella materia all’alba dei tempi, dove l’uomo ha condotto le sue prime, feroci battaglie per la supremazia biologica. È lo stesso uomo sporco del sangue dei suoi fratelli, quello che dal suo primo apparire sulla terra non ha prodotto che dolore. In cosa consiste quel sentimento di vergogna che Josef K. prova di fronte ai suoi esecutori ne Il processo? Pensa forse di aver sprecato la sua vita in facezie prive di sostanza, di non essersi opposto con forza al tribunale «occulto e corrotto» che pervade ogni cosa e persona del suo mondo. È un tribunale composto da uomini, per gli uomini, e Josef, col coltello pensato da Kafka già piantato nel suo cuore, prova vergogna di essere un uomo.
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