“Prendila così” di Joan Didion
Leggere Joan Didion è un’esperienza da compiere assolutamente nella vita di lettore. Confrontarsi con la sua scrittura scarna, asciutta, eppure potente e iconica, e accostarsi ai suoi personaggi, è un esercizio che porta alla riflessione con se stessi, che induce a ripensare alla vacuità di certe relazioni, all’indifferenza di alcune situazioni. L’ottantenne Didion, giornalista e scrittrice californiana acclamata in patria (ha ricevuto da Obama un prezioso riconoscimento), meno conosciuta dalle nostre parti, ha alle spalle una bibliografia tanto lunga e costellata di successi, quanto la sua vita è stata caratterizzata da dolori e sofferenze: nel giro di due anni ha perso prima il marito John Gregory Dunne, anch’egli scrittore, e poi l’adorata figlia Quintana: da questo periodo difficile nacque L’anno del Pensiero Magico (2005), diventato anche una famosa pièce teatrale con Vanessa Redgrave. «Ho avuto una prospettiva leggermente più ampia mentre stavo scrivendo il libro – aveva dichiarato –non sapevo se sarei sopravvissuta. Ma quando ho scritto la sceneggiatura per lo spettacolo, ho realizzato che ero sopravvissuta».
In Prendila così – Play As it Lays –, edito da Il Saggiatore con la traduzione di A. Dell’Orto, racconta il lato atroce della Hollywood più infame e ingloriosa, fatta da attori e attrici di terza categoria e produttori insulsi in caccia di starlette. La protagonista di questo romanzo – il secondo di Joan Didion, pubblicato nel 1970 – è Maria Wyeth, attrice che non ha mai veramente sfondato, pur avendo buone possibilità di carriera. Vive ciondolandosi tra una festa a bordo piscina e una cena, senza forze, né energie, né stimoli o interessi per qualcosa o qualcuno. «Mi sforzo di vivere nel presente e di tenere lo sguardo fisso sul colibrì – afferma Maria nel romanzo – non vedo nessuno di quelli che conoscevo un tempo, ma del resto me ne importa pochissimo di parecchie persone. Voglio dire, forse avevo tutti gli assi nella manica, ma a che gioco giocavo?»
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La sua esistenza torna ad assomigliare a qualcosa di più “normale” solo quando pensa a sua figlia Kate, che vede di rado perché malata. Solo per Kate emerge un sussulto di vita e di passione. Maria Wyeth sembra non avere sentimenti, sospesa com’è in un’atmosfera che non le appartiene, facendosi scivolare tutto, amori e responsabilità, come l’asciugamano che lascia cadere in terra.
Non è facile la lettura di questo romanzo. Non c’è una trama avvincente da seguire pagina dopo pagina, così come riesce difficile anche identificarsi con qualcuno dei personaggi. Eppure stupisce la capacità della Didion di ritrarli sempre con estrema lucidità, con pochi e sapienti tratti che contribuiscono a definirne l’identità, la personalità e quasi a prevederne le mosse. C’è una forza segreta, magnetica, che alimenta la lettura, una strana alchimia che scaturisce da questa fiera delle vanità che si sviluppa tra Los Angeles e il Nevada. La scrittura serrata e il linguaggio attento, che giustamente Edoardo Nesi ha definito “chirurgico”, talvolta arido come il deserto del Nevada sa essere, facendo intravedere rolling bushes lungo le strade polverose, sono l’ossatura necessaria e solida di una storia che fa del vuoto e del quasi nulla l’unico leitmotiv. Non ci sono fronzoli, né giri di parole perché sono sufficienti le finte amiche di Maria, le conversazioni futili, i party e le cene a realizzare la pervasiva sensazione di evanescenza. Vale la pena leggere Prendila così di Joan Didion per pensare al sogno americano nella sua giusta dimensione e al suo amaro rovescio della medaglia.
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