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Premio Strega 2020 – Intervista a Gian Arturo Ferrari

Premio Strega 2020 – Intervista a Gian Arturo FerrariDopo anni trascorsi nel mondo dell’editoria, Gian Arturo Ferrari esordisce nella narrativa con Ragazzo italiano.

 

Pubblicato da Feltrinelli e finalista del Premio Strega 2020, Ragazzo italiano è la storia di Ninni/Giovanni attraverso la cui vita Ferrari attraversa la storia dell’Italia nelle sue luci e ombre, con la scuola ancora strumento di promozione sociale e una generazione figlia della guerra ma pronta a realizzare sogni e speranze.

 

Con Ferrari abbiamo parlato di alcuni punti centrali del suo libro.

 

«Ragazzo italiano» s'inserisce, per certi versi, nel filone della narrativa italiana che racconta il passaggio dall'economia agricola a quella industriale. Penso anche ad alcuni vincitori del Premio Strega, come Arpino, Camon o Volponi. Come si inserisce lei in questa tradizione? Che rapporti ha con questi autori?

Devo dire che non ho rapporti particolari con gli autori citati.

Il senso del libro è quello di ricordare, di rievocare, un arco di tempo e quindi una vicenda umana che mi sembrava fuori dalla consapevolezza collettiva, vale a dire dell’Italia dell’immediato dopoguerra e della ricostruzione che, nel comune sentire, sono spesso fraintese come l’Italia del boom e del miracolo economico. Termini che io aborro.

Io considero quel periodo caratterizzato da uno sforzo straordinario per il nostro Paese. Noi abbiamo fatto allora delle cose grandissime e in pochissimo tempo, in condizioni difficilissime. Nell’arco di pochissimi anni siamo usciti dalla guerra, ci siamo dati la Costituzione che tutt’oggi conserviamo gelosamente, abbiamo fatto l’amnistia Togliatti eliminando tutti gli strascichi e le vendette e il sangue della Guerra, abbiamo rinnovato i patti lateranensi, abbiamo fatto la riforma agraria, abbiamo fatto le case popolari, abbiamo fatto l’ENI. Questo è stato uno sforzo collettivo grandioso.

Io non ho raccontato della grandiosità dello sforzo collettivo, ma ho raccontato una storia partendo dal lato umano delle persone che vi partecipavano, persone che avevano una caratteristica essenziale, cioè quella di guardare avanti e non indietro. Il loro passato non era una cosa né da condannare né da ricordare. È solo attraverso la fatica che si sono portati fuori. È questo che volevo ricordare attraverso la vicenda di un personaggio per metà autobiografico e per metà inventato, il quale, a sua volta, mediante la propria storia, racconta l’Italia.

 

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Nel passaggio verso l'industrializzazione cosa abbiamo perduto? E cosa rischiamo di perdere oggi che ci avviamo, pare, verso un altro cambiamento?

Oggi la situazione è totalmente diversa. È identica da un punto di vista strutturale, cioè noi dobbiamo affrontare un dopoguerra e poi affronteremo una ricostruzione, però i termini del problema sono completamente diversi. L’Italia di allora era in gran parte un’Italia rurale, oggi non la è più. Il mondo industriale, che nel mio libro è rappresentato dal posto fittizio che io chiamo Zanagrate, era diviso in due pezzi: uno, quello della manifattura, che a Zanagrate era fatto da folle di ciminiere e da ululati di sirene, con una struttura sociale classista, durissima; e uno rappresentato da Milano, da una società aperta, socialdemocratica, improntata sul benessere dei cittadini, purché i cittadini facessero il loro dovere, quindi lavorassero. Due spiriti completamente diversi tra loro.

Oggi la situazione — sottolineo, però che io non sono un politico e non sono in grado di dare delle indicazioni — ha un’altra natura. Quello che non riesco a vedere oggi è lo spirito che avevamo allora. Tutti dicono che torneremo come prima, speriamo ben di no. Non dobbiamo guardare a come eravamo prima, dobbiamo guardare a quello che vogliamo diventare, quindi dobbiamo guardare avanti. Questo è l’insegnamento nella storia di quelli anni. Il resto è tutto diverso e dovrà essere inventato dalle nuove generazioni.

Premio Strega 2020 – Intervista a Gian Arturo Ferrari

Nel romanzo assistiamo anche a un altro divenire, quello di Ninni che appunto diventa Gianni. Come possiamo definire questa crescita, questo sviluppo? Cosa voleva dire diventare adulti in quel momento storico dell’Italia?

Voleva dire ereditare il passato, un’eredità pesante dal punto di vista relazionale. I rapporti umani non erano quelli che sono oggi. Erano rapporti molto più ruvidi, aspri, abrasivi, difficili. Soprattutto i rapporti generazionali e particolarmente quelli tra padri e figli maschi.

Il protagonista, quindi, attraversa questi rapporti con grandi difficoltà. È un bambino con diversi handicap, è un balbuziente abbastanza grave, ha un rapporto conflittuale con il padre. È un mondo in cui è difficile farsi strada e venire avanti. Come fare allora? Un po’ in sintonia con tutto il resto del paese, lo si fece badando al merito. Il merito fu il metro sul quale si misuravano le cose.

Il contributo fondamentale al protagonista del romanzo, e anche in generale in Italia, fu dato dalla scuola. La scuola è uno dei veri protagonisti del mio libro, accanto al ragazzino e alla nonna, che si rivela lungimirante. Io sono debitore nei confronti della scuola pubblica italiana e ritengo che questo sia l’investimento sul futuro principale per un paese. La propensione al futuro di un paese si misura dall’interesse, dalla cura, dalla diligenza che si dedica alla scuola pubblica. Purtroppo adesso non mi sembra che in Italia siamo in una situazione di questo genere.

 

L'istruzione e la scuola in generale vengono presentati nel libro come strumenti per il riscatto e la promozione sociale. I dati oggi dicono qualcosa di diverso, e cioè che la scuola non assicura più che i figli possano aspirare a un futuro migliore rispetto ai genitori. Cosa si è spezzato nella società e in questa dimensione della scuola?

È difficile dirlo. La scuola è nel mio libro e nella realtà uno strumento di promozione sociale, ma è soprattutto uno strumento di crescita interiore. La scuola non è solo una scala con cui si sale velocemente verso i livelli più alti della società, è un allargamento del proprio io. È il tramite per assumere una dimensione personale e diversa da quella che ognuno di noi ha originariamente confinata alla famiglia, ai rapporti più diretti e così via. La scuola ha questa funzione straordinaria e che io nel libro cerco di rappresentare.

Oggi perché non è più così? È difficile a dirsi. Io ho molto rispetto per la scuola com’è fatta oggi, la quale offre molto. Allora, però, la scuola era altamente selettiva, poi questo concetto della scuola meritocratica è stato duramente contestato nel ’68 (anche da me, devo dire, che avevo ventiquattro anni. Non si sta sempre dalla parte del giusto; poi però si cambia idea). Quella scuola era completamente diversa da quella attuale. Il concetto era che l’asticella veniva posta a un certo livello e bisognava saltarla, e questo è venuto meno. La scuola oggi, per quello che io vedo, è molto più morbida o, come si dice oggi con un aggettivo bruttissimo, più inclusiva. Di tutto questo diffido ampiamente. Preferisco le cose apparentemente dure. Il problema non è tanto il merito o il demerito degli insegnanti o il contenuto della scuola italiana, ma questo atteggiamento generale che ha portato a una scuola cuscino. Non dico che la scuola debba essere un letto di chiodi, ma deve esserci una maggiore corrispondenza tra impegno e riconoscimento.

Premio Strega 2020 – Intervista a Gian Arturo Ferrari

«Andavano sgangheratamente nella notte il bambino e la nonna, sembravano due ubriachi. La nonna che oscillava di qua e di là a ogni passo per il peso della valigia, il bambino tenuto per mano che si spenzolava dall'altra parte.» Sono le parole con cui si apre il romanzo, e mi sembra di poter leggere l'immagine del passato che porta con sé il futuro quasi per fargli spazio. Quanto sarebbe opportuno recuperare quest'approccio dopo un'ampia stagione in cui il vecchio è stato presentato solo come qualcosa da rottamare per andare avanti?

Il vecchio non è assolutamente da rottamare per andare avanti. Rottamare è un termine rude, riferito a una specifica situazione politica, di uno specifico partito politico, che era il partito democratico. Rottamare il passato non si può, questo è il punto fondamentale. Il passato c’è, pesa e condiziona, è una realtà. Il problema è metterlo a frutto, considerarlo, conoscerlo. Un conto è lo zaino che ognuno di noi porta sulle spalle e che contiene il passato, un altro conto è la direzione in cui si cammina: sono due cose che non c’entrano le une con le altre. Più si porta il carico, quindi non il peso, più ci si può aprire al futuro. Il problema è che le due cose vanno fatte contemporaneamente, il problema è che noi, per quanto riguarda il guardare al futuro, siamo molto indietro. Nel considerare il passato, in molti casi mi pare ci sia poca consapevolezza, e ridare un poco di questa consapevolezza è quello che ho cercato di fare con questo libro.

 

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Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega?

Non mi sto preparando in modo particolare. Non c’è nulla per cui prepararsi, a dire il vero, devo stare seduto sulla sedia. La preparazione c’è stata prima, semmai, durante questo lungo tour che abbiamo fatto la settimana scorsa, attraverso l’Italia con tutti i componenti dell’attuale sestina finalista. Questo sì che può essere considerata una preparazione.

In relazione alla situazione attuale, attraverso il tour ho colto una fotografia varia del nostro paese. Si è svolto in larga misura in Italia meridionale, dove c’è meno ansia. Il Nord è stato molto colpito anche dal punto di vista psicologico, quindi ha una risposta molto rigorosa nei confronti delle diverse norme da rispettare.

Il viaggio, però, si è rivelato piacevole e divertente, con un buonissimo clima tra noi concorrenti.


Per la terza foto, la fonte è qui.

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